Sulo a Napule 'o ssanno fa. La città partenopea è così: un concentrato di folclore, riti, scaramanzie, detti popolari che riescono a strappare un sorriso anche ai più scettici. Vai al bar e devi fare “il baffo” di caffè sul bordo della tazzina per “raffreddarlo”. Non c’è logica, è una fede cieca: è Napoli, signori, prendere o lasciare. Intendiamoci, il mito che si è creato attorno alla tazzulella, la liturgia dell’espresso al bar, è divertente, ma la cultura del caffè è tutt’altra faccenda.
Nella tazzulella il caffè è bruciato
Bollente, ristretto, ahinoi bruciato: dietro il bel fascino della tradizione si nasconde una verità amara, proprio come la bevanda, nella maggior parte dei casi fatta con chicchi di varietà Robusta di scarsa qualità. Quello di Napoli è l’esempio più calzante per raccontare la storia caffeicola dell’Italia, un Paese che ha fatto della sua memoria storica dell’espresso – la prima macchina fu brevettata da Angelo Moriondo nel 1884 a Torino – un punto di debolezza, anziché di forza. Un’usanza che ha rappresentato un ostacolo per l’innovazione di settore, per quella rivoluzione che nel resto d’Europa e del mondo è avvenuta già oltre un decennio fa. Caffè specialty di pregio, sostenibili, estrazioni alternative in filtro, un servizio meno frettoloso e personale formato con attenzione: questo è lo scenario che vorremmo, ma in molti casi si fa fatica anche a trovare un “semplice” espresso ben fatto.
Non regge neppure il mito di Gambrinus
E a Napoli, purtroppo, la qualità media dei bar non è affatto un motivo di vanto (nemmeno in altre località, che al contrario del capoluogo campano, però, almeno non hanno creato una leggenda attorno a ‘o ccafè). Basti pensare al Gran Caffè Gambrinus, locale storico che in passato ha radunato l’élite intellettuale della città e che ancora oggi vive di una fama immotivata: quello di Piazza Trieste e Trento (con sede anche in via Chiaia) è infatti il più clamoroso caso di mitizzazione che ci sia.
Non così inspiegabile, però: gli eleganti arredi, l’atmosfera senza tempo, la bella divisa dei camerieri che spiegano come far freddare più in fretta la bevanda – servita in tazzine cocenti, capovolte a testa in giù sulla macchina espresso, con ustione assicurata – contribuiscono ad alimentare l’appeal del bar. Sarà l’acqua, come dicono in molti, magari addirittura l’aria… sul caffè espresso napoletano si dice di tutto, tranne la verità, ovvero che è mediamente mediocre, se non cattivo.
Le eccezioni ci sono, ma sono poche
Le eccezioni ci sono, a cominciare da Ventimetriquadri, caffetteria specialty aperta da Vincenzo Fioretto nel 2017 (e ce ne sono anche altre), ma sono troppo poche per una città così grande, così importante, così bella. La città che ha inventato uno dei rituali più romantici di sempre, che solo da un popolo così generoso poteva prendere vita. Il caffè sospeso, la tazzina pagata da un cliente per uno sconosciuto, pronta per essere offerta a chi non può permetterselo (qui trovare le varianti regionali). Un’abitudine nata in tempo di guerra, in un periodo di miseria sconfinata, citata anche da Luciano De Crescenzo: “Quando un napoletano è felice per qualche ragione, invece di pagare un solo caffè, quello che berrebbe lui, ne paga due, uno per sé e uno per il cliente che viene dopo. È come offrire un caffè al resto del mondo”. Riuscite a immaginare un gesto più gentile? Immaginate quanto sarebbe bello, però, se la tazzina offerta fosse anche buona.