Premessa: non siamo per il politically correct a tutti i costi, né tantomeno per la cancel culture. Ma la storia che raccontiamo è indice di come a volte la superficialità possa fare danni anche non indifferenti. La goliardia può avere anche effetti taumaturgici, può sdrammatizzare delle idiosincrasie culturali e dare il segno di come in realtà siano anche superati dei cliché retrò che non stanno più in piedi. Di cosa parliamo? Vi raccontiamo di uno splendido cocktail bar con vista a 360 gradi sui tetti e sulle pietre più belle e suggestive del cuore di Roma che scivola però su un polveroso refrain neo-coloniale e su una interpretazione della “mia Africa” quantomeno stereotipata e accettabile forse fino a 50 anni fa, ma non più oggi.
Uno scivolone neo-coloniale
Immaginate di farvi servire dei freschi e succulenti cocktail da camerieri in divisa da esploratore in stile Albertone nel film di Scola (1968, appunto), “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa?”. Con tanto di corno che “ogni giorno al tramonto… saluterà il calar del sole”, assicura il programma. La drink list, curata dal barman Matteo (Zamberlan) Zed, si ispira (si ispirava, meglio dire) a nomi di “etnie” africane: Watussi, Zulu, Pigmei.
Inutile dire che il nome Watussi in realtà sarebbe l’adattamento “alla Alligalli” – Edoardo Vianello, 1963 – di Wa Tutsi, nome della popolazione di origine etiopica ma di lingua bantu, stanziata a sud-ovest del lago Vittoria tra gli stati di Uganda, Ruanda e Burundi. I Tutsi sono stati anche vittime, insieme agli Hutu moderati, del terribile genocidio che si è consumato in Ruanda nel 1993.
E pensare che da tempo abbiamo bandito dai menu dei bar anche il trendissimo “marocchino” diventato “mocaccino” proprio per non offendere i marocchini che nulla c’entravano col cappuccino (il nome della preparazione richiamava troppi stereotipi legati alla guerra mondiale, al colore della pelle o presunto tale). Gli Zulu vivono prevalentemente in Sud Africa e i Pigmei vivono nei diversi paesi lungo il bacino del fiume Congo.
La cosa ci ha subito allarmati: non riuscivamo a capire cosa c’entrassero popoli africani con una mixology in stile internazionale e anche cosa avessero a che fare divise da esploratore fin de siecle con le esperienze in Madagascar del barman, per altro un raffinato esperto di mixology che officia al The Court e che ha riportato fortemente l’Italia nei posti alti della classifica della Fifthy Best Bar.
Ci hanno chiesto – a noi del Gambero – di dare in anteprima la notizia dell’apertura del nuovo spazio e delle novità 2023-2024 all’interno del Palazzo dell’Arte di Alda Fendi, la Fondazione Rhinoceros – in una struttura nel cuore del Velabro e risalente al 1600 – inaugurato nel 2018. Abbiamo rifiutato l’offerta dell’anteprima e abbiamo anche avanzato le nostre perplessità alla proprietà. La proprietà ha accolto le nostre obiezioni e ci ha assicurato che avrebbe cambiato i nomi dei cocktail. Così, aggiorniamo la descrizione della drink list del nuovo Rhinoceros Roof Bar, anche se le perplessità rimangono e ve le raccontiamo.
Drink list inutilmente ispirata ai safari
La drink list firmata da Zed, la Cocktail Safari, presenta 15 drink ispirati a tre territori africani: Tanzania, Zimbabwe e Namibia. La prima sezione è dedicata ai Mocktails (cocktails analcolici) tra cui spicca “Il Frutto del peccato” con spirito analcolico di agave, cordiale di mela e soda al pepe e pomelo; “Desert Colada” con cordiale di ananas e dattero. Arrivano poi i cocktail più freschi e bevibili ispirati allo Zimbabwe come “Greener” con agave, tequila, mezcal, liquore di fiori di sambuco ed edamame; ma anche “Purple Sea” che ripropone le sfumature del mare africano al tramonto con Champagne Rosé e tinture violacee di erbe locali. Infine, in coppetta, l’omaggio alla zona della Namibia con “Capers Dirty Martini” a base di gin ed estratto di cappero verde; “Avocado Daiquiri” con purè di avocado e sciroppo di agave; “Che Figo!” con infusione di foglie di fico, cocchi americano, succo di lime e vaniglia. “I drink – assicura Zed – si ispirano ai frutti, alle erbe e alle botaniche africane che trovano però nelle tecnologie avanzate e nelle preparazioni moderne una via di contemporanea bevibilità”.
Un progetto nato sbagliato
Ora, cosa c’entrino i capperi, l’agave, la tequila i fichi e quant’altro con l’Africa e con la Tanzania, lo Zimbabwe e la Namibia, Zed ce lo deve spiegare. C’entrano, invece, probabilmente con la necessità di dover cambiare in corso d’opera un progetto nato vecchio, un po’ stantio e che non stava in piedi. Col rischio di far esplodere una polemica sul neo-colonialismo proprio nel cuore del vecchio Impero (Romano prima e mussoliniano poi) dove ancora campeggiano le mappe delle conquiste italiane retaggio (e monito, speriamo) di un mondo che fu. Certo, le divise da piccolo esploratore non lasciano ben sperare. E anche l’idea del safari in questo contesto ci fa pensare alle pelli di leone, di tigre e ai trofei dei vecchi polverosi club britannici di coloniale memoria, appunto.