Inizio gennaio, il tempo dei buoni propositi per l’anno venturo, delle sfide e delle nuove energie da dedicare alla scoperta. Anche in ambito gustativo dovremmo aver il coraggio di utilizzare questi giorni per darci dei nuovi obbiettivi, delle sfide enogastronomiche da imporci per i prossimi mesi. Se volessimo provare a definire il paese meno conosciuto in ambito culinario a livello globale, senza dubbio tra i finalisti potremmo collocare Haiti.
In effetti quest’isola (o, per essere precisi, mezza isola, visto che sulla stessa porzione di terra emersa sorge anche un altro stato, Santo Domingo) le notizie che arrivano sono poche e spesso drammatiche: il mondo pare ricordarsene solo per disgrazie come terremoti ed epidemie, oppure per notizie di cronaca come il recente omicidio del Presidente Jovenel Moïse. Eppure, nonostante i continui flagelli che hanno colpito questa nazione, la sua eredità a livello globale è molto maggiore di ciò che si immagini, a partire dalla sua storia.
Haiti, storia di una nazione indomita
Colonia francese, popolata con schiavi africani, è stata la seconda nazione delle Americhe a dichiarare la propria indipendenza (1º gennaio 1804) dopo gli Stati Uniti: dopo la Rivoluzione francese e la dichiarazione dei diritti dell’uomo infatti “le gens de couleur” cominciarono a fare pressione sul governo coloniale ottenendo il 15 maggio 1791 dall'Assemblea nazionale francese i diritti politici a tutti i mulatti e i neri nati liberi, ma non per gli schiavi, che tre mesi dopo si ribellarono e in breve arrivarono a conquistare l’isola che divenne il primo Stato indipendente dell'America Latina e il primo gestito dai discendenti degli schiavi africani. Poi la rivoluzione venne schiacciata, ma il carattere indomito dell’isola è rimasto immutato nei secoli, e nonostante l’enorme povertà, i problemi di criminalità e di analfabetismo, l’Isola resta orgogliosa e autentica, come se l’isolamento l’avesse mantenuta intatta nelle sue tradizioni in un mondo sempre più globalizzato.
La soupe joumou patrimonio Unesco
In queste settimane di Haiti si è parlato una volta tanto per una bella notizia: la soupe joumou, piatto simbolo della lotta per l'indipendenza e contro la schiavitù è entrato a far parte del patrimonio immateriale dell'umanità per l'Unesco, nella stessa tornata in cui hanno ricevuto lo stesso riconoscimento anche il ceebu jen o tieboudiene senegalese e la cerca e cava dei tartufi italiana. Il piatto era originariamente riservato ai padroni bianchi, e la sua diffusione tra la popolazione di colore ex schiava ha per gli haitiani un forte valore simbolico. Assaggiare questa zuppa nella sua versione originale al momento è decisamente difficile visti i limiti negli spostamenti ad Haiti - sia per il Covid, sia perché la povertà ha portato a un’ondata di rapimenti da parte di bande criminali - esiste un altro prodotto dell’isola che si può assaggiare ovunque nel mondo: il Clairin, il Rhum haitiano, che lega il suo successo a livello internale a un italiano: Luca Gargano.
Luca Gargano, l’ultimo grande esploratore
Luca Gargano è un nome noto tra gli addetti ai lavori: è l’uomo al timone di Velier, tra le più importanti realtà distributive di spirits in Italia. Ma questa definizione non rende onore a questa figura carismatica e ricca di ideali, capace di infondere al mondo dei distillati una filosofia etica così forte e da essere ormai parte della narrazione di molte aziende del settore. La sua storia, raccontata nel libro autobiografico Nomade tra i barili è quella di un grande esploratore, capace in un mondo ormai completamente mappato di scoprire nuovi territori e culture, a partire da quelle di popoli che hanno con la canna da zucchero e la sua distillazione lo stesso rapporto ancestrale che in Europa si ha con il vino. Il suo lavoro ha contribuito a preservare il mondo del Rhum dall’appiattimento industriale, e al contempo ha dato modo a distillerie di tutto il Sud America e dei Caraibi di farsi conoscere. Non solo, nella sua ricerca che spesso ha i tratti di una missione, Gargano si è spinto a cercare distillatori artigianali là dove nessuno li aveva mai cercati, dall’Africa fino - appunto - ad Haiti.
Perché i Clairin sono diversi?
Se ad Haiti porti il francese, otterrai il creolo. Se ci porti il cristianesimo, lo vedrai mischiarsi con le religioni africane nel Voodo. Perché questa terra non rifiuta niente, ma non accetta niente per buono: rimette in discussione, plasma, elabora e restituisce la propria versione delle cose.
Nei Caraibi la distillazione dei sottoprodotti della canna da zucchero si pratica da oltre 300 anni, e quella che era una tradizione agricola piano piano si è spostata verso l’industrializzazione, con una crescente concentrazione: oggi esistono meno di 50 distillerie attive in tutti i Caraibi.
Proprio per questo, quando dopo anni di pellegrinaggi, Gargano arrivò ad Haiti rimase esterrefatto: sull’isola dimenticata dal tempo esistevano circa 500 piccole distillerie artigianali, ancora legate ai villaggi e alle campagne. Qui, quelli che in una classificazione manualistica sarebbero rum agricoli (prodotti dal puro succo di canna e non da melassa) sono chiamati Kleren che si potrebbe tradurre come “chiaretto”. Ottenuto tramite una singola distillazione, mantiene intatte le note aromatiche delle locali varietà di canna utilizzate, che crescono senza prodotti chimici e in consociazione con mais, manioca, banana o mango, raccolti a mano e portati in distilleria con carri trainati da animali da soma.
Portare i Clairin fuori da Haiti
Prima dell’arrivo di Gargano, questo distillato era per consumo domestico e poco più. Dopo un attento lavoro di ricerca ha selezionato cinque Clairin che rispecchiassero diverse tipologie di canna (non ibridate e senza uso di chimica in agricoltura), diverse tecniche di fermentazione (spontanee, senza lieviti selezionati e nessuna filtrazione) e distillazione, e le ha imbottigliate portandole in Europa e nel mondo. E poi ha fatto di più, definendo un vero e proprio disciplinare per la propria azienda, che creasse un solco per chiunque volesse lavorare nel mondo del Clairin e non permettesse di snaturarne la natura.
- La coltivazione deve essere biologica e seguire le tecniche di produzione tradizionali, senza l’utilizzo dei prodotti chimici di sintesi (diserbanti, fertilizzanti, fungicidi…)
- La raccolta deve essere fatta a mano
- Il trasporto della canna da zucchero deve essere quello antico (a dorso di mulo o su carri trainati da tori)
- La fermentazione del succo della canna da zucchero deve avvenire esclusivamente attraverso i lieviti naturali, senza l’aggiunta di lieviti industriali, senza la diluizione con acqua, e deve durare almeno 120 ore
- La distillazione deve avvenire all’interno di alambicchi con un massimo di 5 piatti di rame a diretto contatto con il fuoco
- Il distillato deve essere imbottigliato al grado di uscita dell’alambicco
- L’imbottigliamento deve avvenire ad Haiti.
Portare il mondo ad Haiti: il racconto di Julian Biondi
Prima del Covid, nonostante tutte le difficoltà, uno degli obbiettivi di Gargano era far conoscere Haiti e la sua cultura nel mondo. Ogni anno, nei paesi di esportazione dei Clairin, una competizione tra barman metteva in palio un viaggio sull'isola caraibica per conoscerne la cultura, come ci racconta Julian Biondi, ultimo vincitore italiano, e prossimamente volto di Gambero Rosso Channel con il suo nuovo programma Viaggi di Spirito: “è uno di quei posti in cui non ti aspetteresti mai di andare, e in cui sono onorato di essere stato. La sua fortuna e maledizione è quella di essere un posto unico: è l’unico caso di Nazione in cui degli schiavi hanno combattuto i propri oppressori, e hanno vinto. Per questo, sin dalla sua indipendenza, è stata spazzata via dalla cartina mondiale. Il Clairin è il risultato di questo. Un distillato prodotto da una canna da zucchero unica, poiché mai ibridata. Distillato in maniera rudimentale, con alambicchi molto semplici. In tutta l’isola ci sono centinaia di distillerie, molte delle quali sono semplici capanne. Il Clairin è il vero spirito del suo popolo: orgoglioso, unico, esuberante e misterioso”. Tutti i vincitori dei vari paesi (Danimarca, Germania, Singapore, Francia, Italia, Belgio, UK e Polonia) una volta lì hanno potuto selezionare un cask, che è stato poi imbottigliato ed esportato con il loro nome: “La selezione del cask è stata una delle esperienze più belle della mia vita” racconta Biondi “Un piccolo magazzino a Port ai Prince ospita diverse prove dì invecchiamento dì Clairin. È la prima volta che questo distillato viene invecchiato, per cui gli 'esperimenti' sono numerosi e interessantissimi. Diversi Clairin invecchiati per periodi variabili in botti che precendentemente hanno ospitato altri spiriti, dal Bourbon allo Sherry. Abbiamo fatto un blind tasting di 39 prodotti diversi. Ognuno di noi poteva scegliere quello che avrebbe portato il suo nome. Ricordo che mi innamorai del tasting numero 5. Quando dissi 'questo è io mio' però anche un’altra persona lo aveva selezionato. Allora ce lo siamo giocato a chi arrivava più vicino a capire cosa fosse. Iniziai io, dicendo: 'è un Clairin Vaval, invecchiato in botte di Sherry, circa un anno e mezzo'. Era esattamente un Vaval ex Sherry, vecchio 17 mesi. Non c’è stato bisogno che l’altro provasse a dire la sua: quel Clairin aveva ufficialmente scelto me”.
Non sappiamo quando sarà possibile tornare ad Haiti, ma se questo 2022 deve essere un anno di scoperta, un bicchiere di Cliarin, o un cocktail a base di questo distillato, può essere una bellissima scoperta da fare anche a casa.
a cura di Federico Silvio Bellanca