«Siamo stati da Soot, il ristorante di cucina coreana di cui Milano aveva bisogno», scrivevamo lo scorso gennaio dopo una visita al locale aperto pochi mesi prima in via Piero della Francesca, al numero 59. Un posto che mancava alla città meneghina. E che continuerà a mancare, visto che ha chiuso in sordina ma definitivamente qualche settimana fa. Perché Milano è così: grancassa alle (tante) aperture e assordante silenzio alle (tantissime) chiusure.
Tanta esperienza, pochi consensi
Dispiace perché ogni serranda abbassata è sempre una perdita per la città e poi vuol dire qualche famiglia senza lavoro. E dispiace perché da Soot avevamo mangiato davvero bene. Una cucina coreana di alto livello, nella quale lo chef Kim Minseok aveva creduto molto, lui che era arrivato in Italia per frequentare l’Alma e si era ritrovato a lavorare da Antonio Guida del Seta del Mandarin Oriental e da Daniel Canzian (qui la nostra intervista) con la sua alta cucina veneta. Esperienze che avevano spinto Kim ad «aprire un suo ristorante che andasse oltre all’idea di street food e di cucina casalinga che finora hanno fatto da ambasciatori dell’idea coreana di cibo in Italia», come scrivevamo appena sei mesi fa.
A caccia di spiegazioni
Ma che cos’è andato storto? Kim Minseok lo racconta così: «Il ristorante aveva ricevuto ottime recensioni ma non era sempre pieno». E in effetti la sera della nostra visita, il 27 dicembre del 2023, eravamo soli con la nostra accompagnatrice, cosa che avevamo per la verità attribuito al fatto che i giorni tra Natale e Capodanno sono tradizionalmente piuttosto complicati per i ristoranti cittadini. E invece stava accadendo qualcosa che alla fine ha minato le basi di un buon progetto. Che forse non è stato comunicato a dovere: «Non avevamo fatto pubblicità né alcun tipo di comunicazione – continua Kim – solo io avevo contattato qualche giornalista che conoscevo personalmente».
Una cucina di alto livello
Auguriamo a Kim tutta la fortuna possibile, lui del resto continua a credere nell’idea di una cucina coreana quasi fine dining a Milano. «Se trovo un nuovo finanziatore riparto volentieri, non vedo l’ora», dice. Ma forse dobbiamo chiederci: che cosa ci insegna il caso Soot? Di certo il locale non ha chiuso per la qualità scadente della proposta gastronomica. Nella recensione di gennaio raccontavamo di un’ottima Yukhoe, «una tartare di manzo con foglie di ostrica e chips di riso e alghe perfettamente eseguita anche per gli standard italiani», di una «Heamul Jeon, una frittella schiacciata tipica coreana con cozze e cipollotti, croccante e godibile» e dei Mandu Guk, «piacevoli ravioli fatti a mano con ripieno di carne, serviti coperti da un’irresistibile crosticina e con brodo di osso», oltre che di una ottima «Sella d’agnello con jus alla ssamjang, crema di carote al gotchujang e kinchi di cime di rapa». Lo scontrino certo non era lieve, il menu degustazione costava 90 euro ma per i prezzi di Milano direi che siamo in linea: in certe finte trattorie in Brera mangi mondeghili, risotto giallo e cotoletta di standard appena decenti a prezzi non molto più bassi. E il locale aveva un design piacevole. Inoltre c’era anche la vicina stella polare di Iyo, a pochi metri di distanza, l’unico etnico stellato d’Italia. Sembrava un portafortuna, non lo è stato.
Milano non è pronta?
Forse Milano e l’Italia tutta non sono pronti per la cucina coreana, gemella diversa di quella giapponese che invece spopola in ogni luogo e in ogni lago. Forse Milano si muove per flussi di hype ripetitivi: tutti nello stesso locale perché instagrammabile, differente, divertente, insomma “giusto”. Salvo poi abbandonare la barca alla deriva per salire su un’altra di nuovo instagrammabile, differente divertente. Nel caso di Soot c’è stata un po’ di attenzione iniziale, poi la luna di miele, anzi la “luna di kimchi” è finita come il sogno di Kim, che progettava di far lavorare nel locale anche un barbecue coreano. Insomma, tornando al nostro titolo di sei mesi fa, Milano forse alla fine non ha bisogno di locali come Soot, ma magari di uno strizzacervelli sì. Uno buono, almeno come l’Heamul Jeon del povero Kim Minseok.