A Pasqua le tavolate si trasformano in banchetti pantagruelici. Pietanze di grande varietà rendono golosa questa ricorrenza, che nella tradizione segue il periodo di magra quaresimale prescritto dalla dottrina cattolica. Alcune preparazioni pasquali, più di altre, hanno trovato nel tempo maggiore diffusione, tanto da trascendere la dimensione territoriale e diventare a tutti gli effetti patrimonio gastronomico dello Stivale. Fra queste rientra senz'altro il casatiello, “ciambellone” salato tipico della tradizione partenopea, sfornato ormai in buona parte del Centro Italia. Una ricetta nata povera, poi divenuta ricca, e oggi sempre più rispondente ai canoni contemporanei.
Origine e storia del casatiello
Secondo il credo popolare la pizza rustica avrebbe origini antichissime, riconducibili al mondo pagano e alle celebrazioni di inizio primavera in onore della dea della fertilità, protettrice del raccolto e artefice del ciclo delle stagioni, Demetra (Cerere per i romani). Per quanto non documentata, la ricostruzione che rimanda ai primi insediamenti greci nel territorio napoletano – da Parthenope a Neapolis – appare plausibile, date le tracce coeve di pani conditi o ripieni. È però solo con la fiaba italiana di Cenerentola, risalente agli anni trenta del Seicento, che compare per la prima volta un cibo con la denominazione di casatiello. Ne Lo cunto de li cunte Giovan Battista Basile scrive in dialetto con riferimento all’abbondanza culinaria della festa indetta dal re per ritrovare la portatrice della famosa scarpetta: <<E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio, che mazzecatorio e che bazzara, che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle?>>.
Due secoli dopo, il professore Raffaele D’Ambra ne traccia un profilo storicamente rilevante, seppur stilizzato. Il suo Vocabolario Napolitano - Toscano domestico di arti e mestieri (1873) indica l’impasto dalla forma anulare come quel <<pane condito con sugna ed un tantine di pepe, avvolto in forma di grossa ciambella, con uova intere, mezzo incavate nella pasta, e riguardate in cima da nastrini a croce della pasta medesima; e cotto a giusto forno>>.
Forse ci lascia in eredità una definizione più compiuta di casatiello il secondo volume di Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, testimonianza letteraria del 1858 a cura di Francesco de Bourcard, secondo la quale <<nella sua prima semplicità popolare non è altro che un pane di forma circolare, come un grosso ciambellone, in cui si conficcano delle uova, anche un solo, secondo la dimensione del pane, e queste uova, con tutto il guscio, son fermate al loro posto da due strisce di pasta in croce. La pasta è la solita pasta del pane, ma intrisa con lardo strutto. Cotto al forno, le uova vi divengono sode. Questi casatelli per lo più si fanno in casa […]>>. L’opera dell’autore napoletano di origine elvetica risulta preziosa innanzitutto perché delinea l’estrazione popolare della ricetta: i casatielli nascono come <<vivande plebee>>, solitamente offerte in dono alla servitù, alle lavandaie e al personale domestico. Fra l’altro era usanza delle massaie più umili recarsi il giovedì santo presso i forni pubblici oltre che dai fornai di quartiere per cuocere le loro torte rustiche, una specie di rito collettivo che in taluni centri ancora resiste. Diversamente, ricchi e nobili si ‘abbassavano’ semmai alla declinazione dolce :<<se pur si degna di farne fare in casa o di comprarne, vuol che vi sia mescolato zucchero, uova battute e vattene in là […]>>. Perciò, sopra ogni altra cosa, il lavoro di de Bourcard induce a cogliere quanto sia cambiata negli anni la lavorazione e pertanto ad affrontare una questione tuttora dibattuta nella cultura gastronomica campana: la sottile distinzione fra tortano e casatiello.
Da pane condito a ciambella farcita
In epoca moderna, casatiello e tortano sono termini che vengono usati indistintamente, come se fossero sinonimi. Tanto è vero che nell’immaginario comune tendono a identificare la stessa preparazione. Una ‘convergenza’ che si spiega non solo con il fatto che si assomigliano esteticamente (entrambi hanno una forma circolare), ma anche perché oggigiorno sono preparati praticamente con gli stessi ingredienti. Eppure, agli esordi erano abbastanza diversi. Un dato che invece è facilmente riscontrabile sul piano etimologico. Il primo deriva dal latino caseus, ovvero cacio; letteralmente piccolo cas', che per metonimia diviene piccolo pane al formaggio. Il secondo da tortilis, vale a dire ritorto; semantica che qui allude alla torsione manuale necessaria per abbracciare la farcia e chiudere l’impasto. In effetti, originariamente, uno presentava quella forte componente formaggiosa (adesso circoscritta), in aggiunta al pepe, alla sugna (il grasso viscerale del maiale) e a qualche cicolo; mentre l’altro, tendenzialmente lavorato con lo strutto (il grasso sottocutaneo e dorsale del maiale ricavato per fusione), la cospicua farcitura di salumi. In tempi recenti, la contaminazione reciproca fra le rispettive ricette ha prodotto tuttavia una certa uniformazione nella produzione a tal punto che, oramai, l’unica differenza sostanziale tra le due sarebbe rappresentata dalle uova: nel casatiello sono ingabbiate intere e crude all’esterno del pane tramite delle strisce di pasta disposte a croce; nel tortano, per contro, vengono inserite sode e a pezzi nell’impasto ancora da attorcigliare.
Il canone contemporaneo
Per questo e per una serie di contingenze (viviamo un’epoca in cui il cibo è economicamente più accessibile), tale squisitezza da forno si è spogliata delle veste povera con cui era venuta alla luce. O meglio, riflette la ‘povertà’ dei nostri giorni, la cucina di recupero odierna. Per cui, come si usa dire nel caso delle ricette svuota frigo, "quello che c’è, ci si mette". E chi è che adesso, a differenza del passato, non riesce a reperire un pezzo di formaggio semi-stagionato e un poco di salame? Per di più, come testimoniano vari social trend degli ultimi anni (si pensi al food porn), l’idea di abbondanza e ricchezza gustativa suscita maggiore fascino rispetto a una pietanza basica o meno condita, quale poteva essere in origine il casatiello. Senza trascurare poi che ogni famiglia tramanda la propria ricetta che, per forza di cose, nel passaggio da generazione a generazione, non può mai rimanere identica a se stessa.
Così, a partire dagli ingredienti, il gusto contemporaneo continua a influenzarne la concezione. Si registrano versioni light, che sostituiscono la sugna o lo strutto con il burro e l’olio evo (Pasticceria Dolcemascolo); varianti lievitate, con tempi di lievitazione più lunghi per un risultato meno compatto, più soffice e "arioso" (ad esempio quelli proposti da Anna Belmattino e Forno Gentile); oppure, delle formule vegetariane (la panificatrice ciociara Roberta Pezzella ne fa uno con il broccoletto calato).
Simbologia religiosa
Indipendentemente dalla sua evoluzione storica, il casatello rimane una ricetta pasquale dalla straordinaria valenza simbolica. Un emblema della Pasqua cristiana, in tutte le sue parti: l’aspetto circolare richiama sia la ciclicità della vita sia la corona di spine posta sul capo di Gesù e, pertanto, la resurrezione; il ‘pane’ di cui si compone ne rappresenta il corpo; le striscioline di pasta a forma di croce volte a incastonare sopra l’impasto le uova, simbolo di rinascita, simboleggiano la crocefissione e il calvario di Cristo; il pecorino, prodotto con latte di pecora, rimanda al valore simbolico – purezza e innocenza – dell’agnello sacrificale nella liturgia (Agnus Dei, con riferimento metaforico al sacrificio di Gesù Cristo che redime l’umanità dal peccato); i salumi, invece, alluderebbero a benessere e prosperità.
Il casatiello di Peppe Guida: la ricetta
Lo chef di Antica Osteria Nonna Rosa, roccaforte della tradizione culinaria campana, ha elaborato per noi una ricetta semplice (nessun pre-impasto), facile da replicare a casa, e perfetta anche per il picnic di Pasquetta.
Ingredienti
- 1 kg di farina 00
- 20 g di sale
- 200 g circa di sugna (si può usare il burro ma non garantisce quel sapore caratteristico)
- 1 cucchiaino di zucchero
- 15 g circa di lievito di birra
- 600 g circa di acqua (variabile)
- 300 g circa di salumi misti (bilanciare la componente magra con quella grassa)
- 4 uova
- provolone piccante q.b. (o altro formaggio a pasta semidura come l’Asiago)
- pecorino romano q.b.
- pepe q.b.
Procedimento
Creare una fontana con la farina precedentemente mischiata al sale. Porre al centro della fonte 100 g di sugna e lo zucchero previsto. Sciogliere il lievito in 400 g di acqua tiepida e aggiungerla gradualmente alla fontana per formare l’impasto. Finire di incorporare l’acqua (i 200 g restanti) alla farina e continuare a impastare per bene il tutto dando girate in continuazione fino a quando non inizia a incordarsi. La pasta non deve risultare troppo elastica, ma rimanere un po’ tenera (che non vuol dire ‘liquida’). In ogni caso, l’impasto lavorato deve corrispondere alla fine a un panetto liscio e omogeneo. Raggiunta la consistenza desiderata, riporre l’impasto in una ciotola capiente, previamente unta. Coprire con un panno da cucina e attendere che lieviti (deve raddoppiare di volume). Chiaramente, i tempi di lievitazione possono variare in funzione dell’ambiente (occorre almeno un’ora).
Nell’attesa, tagliare a pezzettoni i vari salumi (ad es. soppressata, pancetta, mortadella, ecc.) e grattugiare del pecorino romano. In seguito, infarinare il tavolo da lavoro o la spianatoia e stendere con il mattarello la massa lievitata cercando di darle una forma rettangolare e uno spessore di 1 cm circa. Tenere da parte almeno 50-100 g dell’impasto; torneranno utili per fissare le uova. Spennellare su tutta la superficie della pasta stesa i restanti 100 g di sugna (più delicata dello strutto), distribuirvi i salumi e i pezzetti di formaggio semi-stagionato, in aggiunta a una spolverata di pecorino romano e una generosa quantità di pepe, macinato al momento. Di qui, partendo dal lato lungo, arrotolare l’impasto ‘a tronchetto’ e chiuderlo cercando di non lasciare vuoti d’aria all’interno che, al taglio, risulterebbero evidenti. Sistemare il rotolo appena formato all’interno di uno stampo a ciambella, oppure di un ruoto tondo - con il pirottino in mezzo a ricreare un simile effetto anulare - dal diametro minimo di 28 cm, in precedenza insugnato e cosparso di farina.
Ingabbiare le uova intere, prima lavate e asciugate, con delle croci ricavate dai quei pochi grammi d’impasto messi in serbo. A tal punto, ricoprire con il panno l’anello da cuocere e procedere alla seconda lievitazione; cresciuto ancora, si spennella delicatamente con dell’uovo sbattuto insieme al latte e si inforna a 170 gradi per una cinquantina di minuti. Intorno ai 40, iniziare a verificare la cottura con uno stuzzicadenti: infilato nella massa, deve riuscire asciutto e non bagnato. Tirato fuori dal forno, il casatiello deve apparire bello colorito in superficie. Mai bianco pallido. Trascorsi 10 minuti dalla fine della cottura, capovolgere lo stampo su un piatto o un piano e lasciare raffreddare. Eseguire tale operazione per evitare che il riposo prolungato nella teglia inumidisca i bordi della ciambella salata facendole perdere la giusta consistenza e croccantezza. Questo saporito pane napoletano si conserva nel classico sacchetto di carta del panettiere e riposto in frigo si mantiene almeno una settimana.
I consigli dello chef
Per una degustazione ideale, Peppe Guida suggerisce in primis di consumare il casatiello il giorno dopo. Ama poi rigenerarlo a secco (senza grassi) in una padella antiaderente rovente che conferisce a ogni fetta, spessa 1 cm, quel tepore e quella crosticina che ne fanno un assaggio di particolare piacevolezza. Inoltre, consiglia di accompagnarvi una fetta di fiordilatte o di formaggio, qualche fava (parimenti gradevole se inserita nell’impasto dopo essere stata sbianchita pochi secondi) e di abbinarci un vino fresco, beverino, non impegnativo. «Un bicchiere di Gragnano è la morte sua».