Lo scorso 5 luglio Brunello Cucinelli ha vinto il Premio internazionale Joaquín Navarro-Valls per la Leadership e la Benevolenza assegnato dalla Biomedical University Foundation. Il riconoscimento è per quelle figure che si sono distinte per i fondamenti etici con cui portano avanti le loro attività, per la capacità di comunicazione e per il valore che danno alle risorse umane.
L'abbiamo intervistato nell’ultimo mensile di luglio di Gambero Rosso. Ecco cosa ci ha raccontato.
Intervista a Brunello Cucinelli
A fine serata, mentre i camerieri cominciano a sparecchiare, Robert V. Camuto si aggira per il salone piuttosto stordito. Ha la camicia fuori dai pantaloni il viso sgualcito di chi è stremato. Il nubifragio di citazioni filosofiche, Champagne, vino rosso e aneddoti d’infanzia organizzato da Brunello Cucinelli per presentare la prima bottiglia della storia della sua cantina, l’ha messo a dura prova. E ora, dopo circa sei ore ininterrotte di parole, è confuso. “400 euro… 400 euro…”, continua a ripetere. Robert è un esperto della rivista americana Wine Spectator e sta evidentemente cercando di organizzare mentalmente una valutazione tecnica di quello che ha appena bevuto, del suo costo alla bottiglia, dell’equilibrio, insomma di tutte quelle cose lì dei tecnici. Ma c’è qualcosa che non gli torna. E non è il costo, anzi. Quello, concede, ci può stare. È piuttosto la sensazione di aver preso la questione dal lato sbagliato. Contromano. “Sai cosa mi ha detto quando gli ho chiesto del suo vino? Che la prima cosa che ha fatto quando ha deciso di iniziare la produzione è stata far ridipingere un trattore. Ma che c’entra col vino?”.
Seduto a un tavolo poco distante, il padrone di casa origlia, e se la ride, con l’espressione del pescatore che sente la preda arrendersi alla lenza.
Cucinelli, ma che è questa storia del trattore grigio?
“Ma niente, gli ho raccontato che quando sono arrivato, dopo aver comprato e raso al suolo gli opifici di tutta la valle per restituirla alla natura e farci il vino, mi sono accorto che i trattori erano gialli e verdi. Potevo fare una cosa tanto bella con un trattore tanto brutto? Così l’ho portato in carrozzeria e l’ho fatto ridipingere”.
Moriremo di storytelling.
“È importante dire le cose giuste, ma è anche importante dirle bene. A un certo punto della mia vita ho deciso che era importante restituire un po’ della fortuna che avevo avuto. Ho cominciato a comprare tutti gli opifici abbandonati che imbruttivano questa valle, di nascosto sennò i proprietari dei terreni alzavano il prezzo (l’ultimo mi ha beccato e ha preteso il quadruplo del primo). Poi ho raso tutto al suolo. E ho risanato ogni cosa, mettendo filari al posto dei capannoni, bello al posto del brutto”.
A questo punto indica la vallata di Solomeo, una frazione di Corciano (PG) e sorride. È di una bellezza struggente, monumentale.
“Capisci da solo che non potevo cominciare a lavorare la terra con un trattore giallo e verde, no?”.
In effetti. Va be’, ma dica la verità. Com’è venuto il vino?
“Non vorrei dirlo io, dovete dirlo voi. Secondo Cotarella (Riccardo, uno dei migliori enologi del mondo, consulente dei “vip” e quindi anche suo, ndr) non male. Ma io sto tranquillo comunque. Quando abbiamo cominciato gli ho detto: a me basta che venga bene la metà del Tasso che sono contento. Loro mi hanno tranquillizzato, anche se io per sicurezza volevo acquistare cinquemila bottiglie di vino buono già fatto da quelli bravi, “male che va – dicevo – mettiamo le etichette nostre lì sopra, quelli sono 500 anni che fanno vino…".
Ma perché un industriale del suo calibro, con tutte le opportunità di business e di visibilità che avrà, ha deciso di lanciarsi in un’impresa del genere? Perché ha scelto un vanity asset così costoso e rischioso?
“Il concetto base è quello della restituzione. Sono stato bravo e fortunato. Sono partito da niente, ricordo ancora che la prima volta che andai a comprare il cachemire per i maglioni, avevo il fucile nel fiorino e la cartuccera in bella mostra”.
E che ci doveva fare?
“Non potevo correre il rischio che il venditore non mi desse il cachemire buono…”
E glielo diede, ovviamente.
“Sì, ma la gente non si accorse che il cachemire era buono. Continuava a chiedermi se era di prima qualità. Lo era, ma non lo capiva. Allora il secondo anno alzai il prezzo del 35 per cento. Smisero di chiedermi se era buono. È un concetto semplice, in questi giorni sto provando a convincere Cotarella, gli dico: sei il miglior enologo del mondo: e fallo un vino a nome tuo da 600 euro, no? Dice che non lo venderebbe, ma secondo me sbaglia.
“Li vede quei signori lì giù?”. Cucinelli indica a un tavolo poco distante un uomo sull’ottantina, canuto, con un bastone di legno grezzo un po’ troppo grosso e un ragazzo sulla trentina con gli occhi scintillanti. “Sono William Harlan e suo figlio. William viene dalla Napa Valley, anzi, più precisamente è l’inventore della Napa Valley. Un pioniere, un genio. Ha insegnato al mondo come si fa il vino. Una loro bottiglia può costare anche 1.500 dollari, ci vogliono un paio di maglioni di cachemire miei per comprarla. Secondo lei si è posto il dubbio sul valore del suo vino?”
Torniamo al concetto di restituzione.
“Quando ho vinto il Neima Marcus Award (l’Oscar della moda, il premio più ambito già vinto da Coco Chanel, Giorgio Armani, Valentino, ndr) prima di andarlo a ritirare sono andato al cimitero dove sono sepolti tutti i miei parenti con la lettera di invito e ho cominciato a urlare verso i loculi: papà, guarda qua! Zio Tonino hai capito? E quando sono tornato gli ho fatto vedere il video della premiazione. Da ragazzino lavoravo la terra, ero addetto alle vacche. Facevo dei solchi con l’aratro così dritti e precisi, belli, che erano l’orgoglio di mio padre. Da allora ho fatto un percorso straordinario e faticoso, ho avuto fortuna. E mi piace adesso provare a restituirla, migliorare quella porzione di mondo che riesco a migliorare”.
Ancora storytelling.
“Ancora cose giuste ben spiegate. I soldi guadagnati con il mio vino andranno tutti impiegati nella costruzione di biblioteche in giro per il mondo. Chiunque comprerà una bottiglia, lo farà sapendo che avrà contribuito alla diffusione del sapere in posti sfortunati. E io gli regalerò una bottiglia del mio olio”.
Fa anche l’olio qui a Solomeo?
“Sì, certo. E facciamo anche il grano, che però a me mica piace troppo. Ma devo confessare che l’olio è il prodotto che amo di più”.
Anche più del vino?
“Ma sì. Proprio come prodotto. Il vino lo apri, ci passi una serata con gli amici, ma è complesso da apprezzare, da capire. L’olio invece dura, ed è per tutti. Per questo amo regalarlo, quando c’è. Perché mica è detto che venga tutti gli anni. Ha molto a che vedere con le stagioni, con il clima. Quest’anno ad esempio abbiamo avuto un paio di gelate violente, fino a -5, che, come diceva mio nonno, ci ha fregato tutti i frutti”.
Anche l’uva?
“No, l’uva no. Perché siamo riusciti a proteggerla: abbiamo acceso un migliaio di fuochi dentro i bidoni e siamo riusciti a tenere la temperatura abbastanza alta. È stata una nottata magnifica, con tutte quelle fiammelle sparse per la vigna”.
Al di là della “restituzione”, e dei soldi spesi per la vigna e la cantina, qual è stato il suo contributo concreto a questo vino?
“Ho curato personalmente tutto il progetto. Le etichette le ho disegnate io. Ci ho messo sei mesi, sono fondamentali le etichette, non ho permesso a nessuno di metterci le mani sopra. Su questo – a proposito di storytelling – i francesi con i loro chateau di qua e chateau di là sono stati dei maestri. Lo stesso per il packaging. Ma la cosa più importante era il progetto, la sua filosofia che poi è la mia. Intraprendere un’attività con lo scopo di restituire dignità e bellezza alla terra e agli uomini che la lavorano”.
Ma davvero il suo vino vale 400 euro a bottiglia?
“Capisce che il trattore non poteva essere giallo? E capisce che i solchi che l’aratro lascia nella terra devono per forza essere dritti e profondi il giusto?”