Il dopo Brexit: un nuovo sistema per i visti di lavoro
Nel Regno Unito, la riorganizzazione legislativa del dopo Brexit procede spedita, approfittando della fase di transizione avviata lo scorso 31 gennaio. L'uscita dall'Unione Europea comporta innanzitutto un adeguamento delle politiche relative all'immigrazione. E il documento di dieci pagine presentato di recente dalla Segretaria di Stato per gli Affari Interni Priti Patel fa chiarezza sulla normativa che entrerà in vigore a partire dal 1 gennaio 2021, quando la Gran Bretagna inizierà a negare visti di lavoro a persone non qualificate e con scarsa dimestichezza con la lingua inglese. Una rivoluzione che Patel giustifica con la necessità di valorizzare la forza lavoro non impiegata del Paese, pari a 8 milioni di inglesi di età compresa tra i 16 e i 64 anni, che il sistema statale dovrebbe impegnarsi a formare per valorizzarne potenzialità e competenze, limitando la necessità (e le convenienza) del mercato del lavoro inglese di rivolgersi all'estero.
Fermo restando – come chi avversa la riforma ha fatto immediatamente notare - che nel computo degli 8 milioni stimati confluiscono pure categorie inadatte a raggiungere lo scopo (studenti, pensionati...), il provvedimento è stato interpretato come una forma di protezionismo estrema, che potrebbe addirittura ritorcersi contro chi offre lavoro nel Paese, con particolare evidenza nei settori agricolo, assistenziale e dell'hospitality.
Il sistema a punti. Stop agli stranieri poco qualificati
Prima di prendere in considerazione le eventuali conseguenze, però, facciamo chiarezza sulle nuove misure cui sarà subordinato l'ottenimento del visto di lavoro. Chi si sottoporrà a giudizio dovrà raggiungere un punteggio minimo di 70 punti per dimostrare di portare competenze qualificate e vantaggi evidenti al mercato del lavoro inglese. E per cumulare punti, il lavoratore straniero dovrà mostrare attestati e qualifiche (20 punti), conoscenza dell'inglese (10 punti), un'offerta di lavoro concreta da parte di uno “sponsor” (20 punti). Di più, il fatto stesso di ambire a lavori “poco qualificanti” costituirà uno svantaggio (cioè zero punti, contro i 20 per i lavoratori "high skilled"). E infatti anche la fascia di reddito determinata dal lavoro per cui si compete sarà fondamentale nella rincorsa al punteggio minimo: salari inferiori alle 23mila sterline annue non porteranno punti in più. Mentre sopra alle 25.600 sterline si potranno ottenere 20 punti molto utili allo scopo.
Diritti o discriminazione?
Il principio da cui parte la riforma è quello di equiparare i diritti dei lavoratori extraeuropei e dei cittadini UE, chiudendo la frontiera agli stranieri poco qualificati, senza distinzioni geografiche di sorta. Principio in linea di massima condivisibile, come pure l'intenzione di favorire l'arrivo di persone istruite e formate per rivestire mansioni specifiche (“aprendo il Paese al meglio di quello che può arrivare dal mondo e sostenendo persone di talento”, sottolinea la Patel, col rischio di discriminare i lavori più umili), che però taglia le gambe alla mitologica (ma concretissima) gavetta che molte persone oggi impiegate con successo hanno sommato sul campo, una tappa dopo l'altra, per arrivare dove sono. Nel mondo dell'ospitalità, e più nello specifico nell'ambito dell'industria della ristorazione, questa discrepanza è particolarmente evidente. Pensiamo a chi ha iniziato come lavapiatti in cucina, runner in sala, garzone al bar, e oggi dà lustro alla ristorazione inglese: di italiani, e non solo, ce ne sono moltissimi, e la sfavillante dining scene gastronomica londinese sarebbe molto diversa se non potesse contare sugli attuali talenti che sono partiti non essendo tali, ma semplicemente asciugando bicchieri in qualche retrocucina.
I rischi per il settore della ristorazione
Questo non vuol dire certo che sia giusto incoraggiare l'ingresso di lavoratori stranieri sfruttati e sottopagati, piaga altrettanto reale nel settore agrario e dell'ospitalità. Ma l'industria della ristorazione inglese – e non è l'unica – ha già lanciato l'allarme: “Sarà un disastro per il settore”. Camerieri, baristi, cuochi alle prime armi, infatti, non possono ambire a fasce di reddito elevate, e spesso sono selezionati dalle aziende anche in mancanza di qualifiche specifiche, per svolgere i suddetti lavori “umili”, ma essenziali per la sopravvivenza del settore. Il problema non si porrà per gli stranieri già impiegati, mentre a partire dal 2021 sarà quasi impossibile ottenere il visto per i lavoratori poco qualificati: il governo inglese stima che il 70% della forza lavoro in arrivo dai Paesi dell'UE non raggiungerà la soglia minima dei 70 punti.
Tra i principali detrattori della proposta, il sindaco di Londra Sadiq Khan si è già pronunciato contro i rischi della riforma, specie per il settore dell'assistenza sociale. Molto dura anche la risposta del gruppo UK Hospitality: “Chiedere all'industria dell'ospitalità di adeguarsi a questa rivoluzione in soli 10 mesi porterà esiti disastrosi. La riforma scoraggerà gli investimenti, frenando la crescita del settore. E l'industria dell'ospitalità sta già affrontando una grave carenza di manodopera, nonostante abbia investito in modo significativo in competenze, formazione e aumento degli apprendistati per implementare la forza lavoro domestica. Senza investimenti adeguati per la formazione interna, quando perderemo la forza lavoro europea che finora ha tenuto in piedi l'industria della ristorazione, come faremo?”, si chiede più di un ristoratore sulle proprie pagine social. Senza contare, aggiungiamo noi, che il governo dimostra di voler forzare i propri cittadini a fare lavori che non necessariamente hanno intenzione di fare. E questa è faccenda da non trascurare.
Ma la preoccupazione rimbalza anche sull'altro fronte, quello degli stranieri che potrebbero presto vedersi negato l'accesso a un mercato del lavoro finora molto battuto. Perché il rischio si concretizzi, però, saranno cruciali le mosse diplomatiche dei prossimi mesi.
a cura di Livia Montagnoli