Come si dovrebbe raccontare la disabilità? È la prima domanda che abbiamo posto a Stefano Onnis, presidente dell'Associazione Come un Albero ETS. Realtà romana germogliata nel 2004, evoluta grazie alla donazione testamentaria di Renata Skok, affezionata all'associazione e al modo di raccontare, per l'appunto, la disabilità. «Purtroppo non sto bene e non ho figli», disse loro. «Ma vorrei veder realizzata una caffetteria dove possano lavorare ragazzi disabili, e ho pensato a voi». Loro, l'associazione che fino ad allora gestiva solo un'attività di teatro integrato, un paio di volte al mese, accettarono la sfida.
La genesi di Come un Albero - Museo Bistrot
«Come fare? Cosa fare? Abbiamo dapprima cercato un locale, lo abbiamo scelto con Renata, poi abbiamo cercato di capire quale fosse la formula adatta per concretizzare i suoi desiderata», racconta Stefano. «Grazie a un progetto sostenuto dalla Provincia di Roma e alla collaborazione di Solidarius Italia ci siamo consolidati e abbiamo iniziato a raccontarci, sempre con il nostro stile non auto commiserativo, e a far raccontare ai genitori la loro esperienza». Ne è nato un libricino, “A fuoco lento”, che è stato la scintilla dalla quale è nato tutto il resto. Dalla quale è nato Come un Albero - Museo Bistrot: «"Ma se facessimo un museo con tutti questi racconti e al suo interno ci mettessimo un bar?", disse un giorno uno dei nostri, incontrando l'entusiasmo di tutti». Detto, fatto. A giugno 2014 è nata la “Casa Museo dello sguardo sulla disabilità” con annesso angolo bar e laboratorio di gastronomia fredda, che sul finire del 2018 si è trasformato in Museo Bistrot.
Il museo-bistort che racconta la disabilità
Come funziona? «Il museo è una sorta di casa dove ogni stanza è dedicata a uno specifico argomento e azione: l’ingresso al guardare e al pregiudizio, il soggiorno al linguaggio e al parlare, la cucina al raccontare e alle diverse narrazioni in campo. E così via. In ogni stanza il visitatore è chiamato a curiosare e a interagire con lo staff, questo per portarlo a riflettere sul modo in cui le persone con disabilità, soprattutto quelle con disabilità di tipo intellettivo, vengono ancora definite». E dunque, tornando alla domanda iniziale, come si dovrebbe raccontare la disabilità? «Non mascherandola e nemmeno evidenziandola. Mostrando la sua complessità. La disabilità spesso è oggetto di retoriche, noi cerchiamo di mettere in evidenza l'importanza dell'inclusione. Non nel senso di “ho incontrato un disabile e ci ho parlato” ma nel senso più ampio e complesso del termine che implica l'istaurare una relazione. L'inclusione è una sfida e un punto di partenza, anche il nostro progetto è solo una traccia di inclusione».
Come è organizzato il bistrot
L'inclusione si tocca con mano anche nel bistrot, dove si mangia bene. «Non vogliamo lanciare il messaggio “venite perché aiutate e date una mano alla causa”. È pure per questo che preferiamo parlare di staff di sala e cucina dove ci sono anche delle persone con disabilità intellettiva». C'è un cuoco professionista e un aiuto cuoco che è pure operatore e ha il compito di mediare il lavoro dove sono coinvolte le persone con disabilità. Ognuno ha dei ruoli e delle mansioni.
«C'è una signora che conosciamo da anni, lei fa dei tiramisù pazzeschi e qualche dolce, lo fa in modo autonomo. Altre due persone, autonome anche loro, ogni mattina vanno al mercato di Piazza Alessandria a fare la spesa, c'è l'addetto al lavaggio e al taglio delle verdure, c'è chi impasta le polpette». Le polpette sono fisse in menu perché oltre a esprimere al meglio la filosofia casalinga della cucina, sono un ottimo “strumento” per allenare la manualità. «La parte dedicata alla manualità è molto importante, è per questo che le verdure le tagliamo a mano, anche per la disomogeneità che piace al nostro cuoco, dice che le texture diverse risultano più divertenti».
In totale sono undici le persone con disabilità impiegate nel bistrot, due sono in sala - «Chiaramente il servizio è informale, in linea con la nostra idea di bistrot, e a tratti anche goffo!» - più un'altra persona che si occupa del laboratorio di pasta fresca pomeridiano. «Per ora siamo aperti a pranzo e la sera solo il sabato perché per le famiglie è impegnativo, ma l'obiettivo è di formare una seconda squadra». Sono retribuiti? «Da quest'anno stiamo costruendo il fondo per far sì che possano essere retribuiti, per ora sono soci volontari. In cambio non pagano la formazione». La formazione? «Una volta maggiorenni le persone disabili percepiscono la pensione e l'accompagnamento, ma di fatto lo Stato non si occupa più di loro e tutte le attività formative sono a carico delle famiglie».
Cosa si mangia al bistrot
Il menu è casalingo (e i prezzi onesti: si va dagli 8 ai 13 euro), oltre alle polpette di carne, primi della tradizione romana, le malfatte (pappardelle di pasta all'uovo più corte) con sughi a rotazione, dal ragù di salsiccia a carciofi e guanciale, zuppe perlopiù vegetariane e piatti di carne a cottura lenta, come brasato o peposo. Piatto gettonato, le patate al cartoccio ripiene. I formaggi sono Dol, i salumi di Re Norcino, il pane lo fanno loro con farina bio, «lo yogurt è Barikamà, il caffè è Galeotto della torrefazione dentro il carcere di Rebibbia, anche i vini (di Agricoltura Capodarco a Grottaferrata) e le birre (di L'Abbarrato a Nazzano) sono di produttori che impiegano persone con disabilità: l'idea è di dar vita a un circuito di economia solidale che sostenga prodotti di realtà sorelle».
Come un Albero - Museo Bistrot - Roma - via Alessandria, 159 - 06 45432789 - www.comeunalbero.com