La cosa che più colpisce dopo la prima mezza giornata su e giù per le strade dei sette colli di Lisbona, più delle minuscole tessere dell’acciottolato bianco, più degli sferraglianti tram gialli presi d’assalto dai turisti e anche più di quella luce atlantica e quel fiume che sembra un mare ma no, non lo è ancora, e del ponte che sembra il Golden Gate, è la presenza onnipresente del pastel de nata, al plurale pastéis. Un dolce di pasta sfoglia e crema all’uovo che sta comodamente nel palmo di una mano e che, negli anni, è dilagato dal suo luogo d’origine, lo splendido Monastero dos Jerónimos nel quartiere di Belém, dove per un paio di secoli è rimasto ben rincantucciato, come un prezioso pisello in un baccello, nella aristocratica solitudine della Antiga Confeitaria de Belém.
Dal convento alla pasticceria e poi giù, in strada
Se chiedete oggi in giro, ai locali e a chi si dichiara profondo connoisseur della città, quali siano i pastéis migliori (perché, insomma, dopo averli visti in ogni vetrina e ogni bar e ogni carta del dessert e ogni negozio di souvenir o delikatessen o panificio o pasticceria, e pure all’arrivo nella hall dell’hotel, dati via come un portachiavi o una mappa della città, vi arrendete e decidete di assaggiarli, e portarne a casa al rientro) difficilmente vi diranno che i migliori sono gli originali, gli unici a fregarsi del nome di Pastéis de Belém. (Qui trovate gli indirizzi dei migliori)
Certo, se si capita in zona (che oltre al monastero vanta anche il nuovo, monolitico Museu Coleção Berardo) si entra dentro per forza, come in visita a una vecchia zia. In una sorta di pellegrinaggio gastronomico: vai lì perché all’originale bisognerà pure rendere omaggio. E gli interni bianchi e blu, gli azulejos, le vetrinette con gli oggetti antichi (qui i pastéis si cuociono, in un tripudio di burro e crema all’uovo, dal 1837, transfughi dal monastero che dopo la rivoluzione liberale fu temporaneamente chiuso) non deluderanno.
Però, se insistete per sapere quali sono proprioi migliori, il nome che verrà fuori più spesso è un altro: Manteigaria. Ohibò, ma chi è costui?
La disfida dei pastéis, ovvero del vecchio e del nuovo
In una città che conserva caffè secolari (la Confitaria Nacional è del 1829, comprateci il Bolo Rei, la ricca ciambella natalizia, poi c’è lo splendido A Brasileira, sfidiamo a non farvi fotografare al tavolino con la statua di Pessoa), bacalhoarias e drogherie dagli scaffali antichi l’alternanza tra vecchio e nuovo è ancora in atto, con algidi specialty coffeeshop e pittoreschi bistrot che si alternano ai minuscoli locali dove si vende la ginjinha (il dolcissimo liquore locale a base di amarena, una sorta di Ratafià) con i piani di marmo e il lavandino a vista, nel retro.
Sulla scia dei turisti e dei lavoratori espatriati, attirati dalla detassazione, dai prezzi bassi e dalla vita notturna vivacissima negli ultimi anni, la capitale più malinconica e decadente d’Europa si è trasformata in una delle più gettonate. Fu così che i pastéis de Belém – ricetta segreta, location unica a 10 km dal centro - ma ancora più i pastéis de nata (nata significa panna in portoghese) ovvero la stessa pasta fatta in qualsiasi altro luogo, sono diventati il simbolo del successo della nuova Lisbona.
Manteigaria è nato dieci anni fa con tutt’altro spirito, ovvero proprio per rifornire le migliaia di turisti (compresi quelli riversati nelle strette strade impervie dalle enormi navi da crociera) della indispensabile pastelletta. Ha aperto quindi tanti locali minuscoli che sfornano paste a ciclo continuo, spesso senza tavolini (come in quello dove siamo stati in Barrio Alto) ma solo per l’asporto in tubi da sei, ricetta dichiarata orgogliosamente e presidio del territorio: se per avere un pastél de Belém bisogna andare a Belém, è la Manteigaria che cerca di avvicinarsi il più possibile al cliente aprendo un negozietto in ogni quartiere. L’ultimo a Belém, proprio nella stessa via della Antiga Confeitaria de Belém.
Larry Majewski in Rooted ha paragonato il fatto addirittura a una lotta per il territorio, come tra gang rivali. Quale audacia e quale totale assenza di rispetto! Una guerra commerciale che suono più come una disfida culturale, generazionale. Dieci anni contro 187. E lo scrivono pure sulla confezione, gli ultimi arrivati, con sprezzo del confronto, o magari come sorniona presa in giro.
Uno va bene, 60 anche no
Che poi questi pastéis sono buoni, eh, ma a piccole dosi e rigorosamente accompagnati da una bica, il robusto caffè nero portoghese, che non sarà della migliore monorigine ma bilancia bene la dolcezza della pasta. La quale, come ha dichiarato Emma Stone all’uscita di Poor Things, per girare la scena del film ambientata in un caffè di Lisbona (ma ricreata in studio, e che ha comunque contribuito, ancor più, al successo globale dei pastéis) ne ha dovuti mangiare, pora tusa, addirittura 60. Il primo è delizioso, al sessantesimo vuoi solo rigettare, ha dichiarato la star.
Sconsigliando tali eccessi, a meno che non puntiate all'Oscar, resta il fatto che ogni turista degno di questo nome torna da Lisbona con il tubo di pastéis nel trolley e poi si aspetta di trovarli anche a casa. Così il giallo pasticcino (da mangiare caldo con una spruzzata di cannella sopra) è arrivato anche in certe nostre pasticcerie, e a Milano ce n’è una totalmente dedicata, Pastéis & Caffè.
Se ci chiedete di prendere posizione tra i due contendenti lisbonesi, ci asteniamo: la cosa migliore sarebbe provarli entrambi. Oppure dirigersi verso il terzo incomodo, una sorta di via di mezzo: si chiama Castro. Varie location a Lisbona, con quel boho chic rassicurante completo di confezione elegantina e anche qualche tavolino dove accomodarsi ed indugiare, riflettendo sull’overturism, la gentrificazione e la potenza di una piccola e umile pasta che sulla sua esile sfoglia sembra portare il peso delle contraddizioni di questi nostri tempi polarizzati. Sì, anche nelle pastellette.