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Nato oste

"Fine dining? Nessuna crisi, ma c'è troppo ego. I clienti sono più ostaggi che ospiti". Intervista all'oste Piero Pompili

Secondo il restaurant manager del Cambio di Bologna, nessuno vuole più fare il cameriere: "Ma i ristoranti non sopravvivono solo con gli chef"

  • 28 Aprile, 2025

Piero Pompili è fra gli osti più famosi d’Italia. Di origini marchigiane ma bolognese d’adozione, ha fatto della “sala” il tuo totem diventando il simbolo di un mestiere, quello di oste, spesso in secondo piano rispetto alla visibilità degli chef. Lui invece, grazie anche alle sue abilità mediatiche, ha ribaltato il concetto facendosi promotore della valorizzazione della sala quale fattore imprescindibile del successo di un ristorante. Basta frequentare Al Cambio di Bologna, dove Pompili lavora, per toccare con mano il suo approccio al cliente fatto di stile, cortesia e professionalità. Ma Piero Pompili non è solo uomo di sala, ma anche un gourmet a tutto tondo. Vi dice niente Muccapazza? C’era lui dietro questo pseudonimo con il quale tanti anni fa animava come food blogger il dibattito sulle tendenze della ristorazione con il compianto Stefano Bonilli. Ora Pompili consacra la sua carriera con la recente uscita di un suo libro Nato Oste (Maretti Editore), un vero e proprio manifesto sul mestiere di oste. Ne parliamo direttamente con lui attraverso qualche ricordo, il suo lavoro a Bologna in un ristorante che unisce la tradizione con l’eleganza classica, ma soprattutto facendo il punto sull’emergenza sala.

Nato Oste Piero Pompili

Perché ha deciso di scrivere un libro? 

Alla soglia dei 50 anni quando mi è stata data l’opportunità di poter raccontare la mia vita e il mio lavoro mi sono un po’ spaventato. Poi ripensando ai 30 anni passati a Bologna nel mondo della ristorazione mi son detto che si, di cose ne avevo fatte parecchie e quindi 50 anni era l’età giusta per poterle raccontare e metterle nero su bianco affinché potessero essere anche un punto di riferimento per le nuove leve. Oggi stiamo vivendo un’emergenza sala mai vista prima.

Cosa sta succedendo? 

Nessuno vuole più fare il cameriere, che regolarmente viene ancora visto come un lavoro da fare in attesa di meglio, né la stampa in questi anni è stata capace di comunicare la Sala e di creare modelli ai quali le nuove leve potessero ispirarsi, non ci sono mai camerieri nelle copertine delle riviste di cucina e così, mentre la figura del cuoco è stata abbondantemente sdoganata e resa glamour creando dei modelli, la figura di chi lavora in sala no. Così mi son detto: se un’autobiografia può esser di spunto anche e solo per ispirare un giovane che vuole intraprendere questa professione allora ben venga!

Stefano Bonilli

Che esperienza è stata? 

A livello emotivo mi si è aperto un vaso di Pandora rifacendomi rivivere emozioni e situazioni incredibili. Dai periodi dell’Osteria dal Minestraio e Osteria Numero Sette di cui me ne sono occupato con Arnaldo Laghi per 20 anni, passando per il periodo di Muccapazza e dei blog che con Stefano Bonilli (ex direttore del Gambero Rosso) animavamo diventando i punti di riferimento in internet sulla nuova comunicazione gastronomica, infine passando per il mio incarico Al Cambio dove, credo, di esser riuscito a riportare all’attenzione mediatica nazionale e internazionale la cucina bolognese come non avveniva da tempo. Di questo ne vado fiero.

Piero Pompili Al Cambio

Ma torniamo alla “Sala” cuore del suo libro, perché secondo lei non solo è importante ma determinante per il successo di un locale?

La sala sarà il futuro della ristorazione. In un paese dove mai come in questo momento si è mangiato mediamente bene è abbastanza evidente che la differenza la potrà fare solo ed esclusivamente la sala e con essa la percezione di benessere che andrà a dare al cliente. In un mondo sempre più complesso e complicato dove siamo perennemente arrabbiati e stressati, le persone che oggi vanno a mangiare fuori desiderano solo una cosa: esser coccolati e potersi sentire speciali, emozioni che solo il calore umano che un servizio in sala all’altezza potrà dare.

Insomma, secondo lei in un locale non si torna solo se si mangia bene ma anche (e forse soprattutto) se si sta anche bene?

Si, soprattutto se si sta bene, e qui entra in scena la figura dell’oste che è uno dei mestieri più complicati che ci siano perché occorre conoscenza e cultura (non solo gastronomica), serve una passione per l’arte, il culto del bello e avere una certa sensibilità e eleganza per rappresentare la città in cui lavoriamo perché non dobbiamo mai dimenticarci che siamo il primo anello di congiunzione tra chi arriva da fuori città e si siede alle nostre tavole e il territorio: siamo i primi a rappresentare la città con il nostro modo di accogliere i clienti, di raccontare le nostre tradizioni, gli usi e costumi. Sono fondamentali i nostri sorrisi e il calore che mettiamo nel far sentire a casa le persone. Il nostro è un mestiere che andrebbe riconosciuto e riqualificato in maniera dignitosa e invece, come dicevo prima, non siamo mai riusciti nemmeno a conquistare una copertina. Questo purtroppo è un problema culturale legato anche al coraggio della stampa che non ha mai investito abbastanza sul dare alla sala il palcoscenico che merita. Ma sono abbondantemente finiti i tempi in cui sala equivaleva al mero servire.

Cosa serve per invogliare i giovani a farli innamorare del lavoro di sala?

Innanzitutto bisogna avere il coraggio di voler cambiare il mondo della ristorazione perché se non cambiano alcuni suoi meccanismi infernali da cui in realtà mi batto da anni le cose non cambieranno se non in peggio. Nel libro racconto che bisogna riportare chi lavora in un ristorante a una dignità morale ed economica che negli anni si è tralasciata per inseguire i sogni dei cuochi.

Tutti a parole condividono il suo pensiero…

Io sono un forte sostenitore che un ristorante prima ancora che di piatti sia fatto di persone e senza le persone, non ci possono essere piatti che prendono vita grazie ai sorrisi e al calore umano di chi serve a tavola, senza tutto questo i ristoranti non potrebbero esistere.

E come la mettiamo con i costi?

Premesso che in Italia ci sono troppi ristoranti e mediamente la spesa per mangiare fuori è molto più bassa rispetto ad altri posti nel mondo, sicuramente introdurrei la mancia obbligatoria a percentuale da un minimo del 5% a un massimo del 20% del conto a discrezione del cliente. Questo, intanto, per integrare gli stipendi che sono oggettivamente troppo bassi per sostenere un sacrificio di vita per il piacere degli altri e la passione non basta più per vivere. Lavorare in un ristorante è sacrificante e nessuno oggi lo vuole più fare, i giovani hanno ragione, a parità di stipendi ci sono molte più opportunità di vita normale in altri settori.

Cosa si può fare? 

Un conto è guadagnare 1.500 € un conto è guadagnarne 3.000. Poi gli orari devono essere rivisti garantendo la possibilità di avere una vita sociale perché non possiamo pensare che esista solo il ristorante. Se non partiamo dall’ABC e quindi dal coraggio di una riorganizzazione aziendale dei nostri ristoranti in un futuro neanche lontano saremo costretti a vederne chiudere parecchie di attività proprio per mancanza di personale. Ad ogni modo la ristorazione per come l’abbiamo conosciuta noi, nei prossimi pochi anni cambierà radicalmente.

Secondo lei l’alta ristorazione è in crisi?

Non è il fine dining ad esser in crisi, ma quella fascia di ristorazione che pensando potesse bastare adeguarsi a un modello standardizzato imposto dalla Michelin fosse sufficiente per fare la differenza, niente di tutto ciò perché oggi quella fascia di locali è vittima di un sistema che nove volte su dieci non fa star bene il cliente con regole e meccanismi che sono lontani dal nuovo modo di concepire la ristorazione (che sta cambiando rapidamente) ed oggi si ritrova a esser sempre più vittima dell’ego di una cucina che crea meccanismi noiosi e fa dei clienti degli ostaggi piuttosto che degli ospiti.

Piero Pompili

Qualche esempio virtuoso?

Oggi in Italia sono pochi i ristoranti che riescono a venderti un’esperienza e che non ti facciano rimpiangere le tre ore passate a tavola. Ma il problema non è il fine dining, Contrada Bricconi e Trattoria da Lucio, ad esempio, stanno riscrivendo le regole del fine dining anche attraverso il servizio in sala. Al Cambio siamo stati definiti il fine dining della tradizione e Marco Bolasco, nel 2017, di noi scrisse che eravamo il primo ristorante nato per mano di una persona di sala dopo anni di ristoranti nati per mano di cuochi. Il mio augurio anche attraverso la mia storia, è che in futuro possano nascere altrettanti ristoranti di successo per mano di persone di sala rimettendo l’oste al centro!

Ha qualche sogno nel cassetto per rendere ancora più grande la cucina bolognese?

Certo che sì, penso che 50 anni siano l’età perfetta per fare qualcosa di grande per Bologna ed ho iniziato a lavorare al mio prossimo obiettivo: realizzare una cena bolognese alla Casa Bianca, che visto il periodo e l’aria che tira, mi sembra un’ottima occasione per far capire a cosa potrebbero di dire di no gli americani se venissero introdotti i dazi. Come ho detto prima, fare l’oste, è tutt’altro che un lavoro semplice. Almeno il mio, e penso che ogni città d’Italia avrebbe bisogno di un bravissimo cantastorie, perché se non le raccontiamo le nostre tradizioni finiranno per sparire per sempre. Direi un finale che rispecchia il personaggio Pompili! Grazie Piero per il tuo contributo, buon lavoro e in bocca al lupo per il tuo libro che sta già avendo ottimi riscontri.

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