Non si mette più niente sotto al tappeto, non conviene a nessuno. Se lo scorso anno l’evento inaugurale di Vinitaly era stato una vetrina di non detti, una poco riuscita operazione “serenità” in cui si è parlato di tutto tranne che della sottile crisi che attraversa il settore, quest’anno la presentazione al PalaExpo ha avuto toni meno edulcorati. I dazi hanno imposto l’agenda, il mondo del vino prova ad avere un approccio più realista anche se non fa del tutto centro: di crisi tra consumi che rallentano e inflazione che galoppa non se ne parla apertamente, ma rispetto allo scorso anno è chiaro a tutti che negare le difficoltà non serve a nessuno. Anche perché il vino è una parte importante dell’economia del nostro paese, vale 45 miliardi di euro, dà lavoro a un milione di persone. Sono necessarie risposte, subito. Il Governo si è presentato in massa, a riprova che il segmento non se la sta passando benissimo e ora più che mani c’è bisogno di una risposta politica alle incognite economiche. E poi dal palco istituzionale si è sollevato un coro unanime: l’Europa non risponda a Donald Trump imponendo “contro dazi”, a rimetterci saremo sempre e solo noi.
Le tariffe statunitensi sul commercio spaventano, ma essendo il vino in balia delle incertezze economiche che hanno colpito mezzo mondo – guerre, inflazione, crisi dei consumi, nuovi pesi geopolitici, cambiamenti climatici – negli ultimi mesi l’Europa ha iniziato a correre ai ripari. Lunedì 7 aprile il commissario Ue all’Agricoltura, Christophe Hansen, sarà al Vinitaly con in mano il discusso Pacchetto vino presentato qualche settimana fa a Bruxelles, il programma di sostegno messo a punto dalla Commissione per un comparto in difficoltà, che pesa – lo ricordiamo – per oltre 130 miliardi di euro sul Pil dell’Ue (ovvero quasi l’un per cento). Tuttavia, nonostante i plausi arrivati dal palco istituzionale di Vinitaly, per i sindacati di settore il pacchetto presenta diversi aspetti da correggere, da migliorare e su cui mettere sicuramente mano nel confronto che si aprirà, probabilmente già in questo mese di aprile, con il Parlamento e con il Consiglio dell’Ue. Ad Hansen, si aggiungerà anche il commissario europeo per la Salute, l’ungherese Olivér Várhelyi che ha in mano il pacchetto anti-cancro che tanto spaventa il comparto.
Ma dicevamo dell’operazione realismo. Le danze le ha aperte il presidente di Veronafiere, Federico Bricolo, il primo al salire sul palco, il primo a fare un discorso chiaro-scuro di cui c’era assolutamente bisogno, il primo a pronunciare la parola “dazi”. «Vinitaly è anche il luogo dove si parla e si cerca di affrontare i problemi del vino». Parole sante. «È facile fare le fiere nei momenti in cui va tutto bene», lo è molto meno «nei momenti come questo in cui serve un supporto supplementare». Ad ascoltarlo in prima fila “mezzo” Governo, nell’ordine: Francesco Lollobrigida, titolare del ministero dell’Agricoltura (qui la nostra intervista), padrone di casa, un accorato Adolfo Urso, ministro del Made in Italy, il lisergico Alessandro Giuli a capo del dicastero della Cultura e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani. «In un momento come questo, le istituzioni hanno voluto dare un segnale», ha detto Bricolo.
In sala, già prima dell’inizio della conferenza, rimbalzava un’unica parola: dazi. I “maledettissimi” dazi di Trump, quelli che rischiano di stritolare mezza Europa, e il vino è un primo bersaglio. Timidamente si prova a parlarne anche sul palco, ma si segue una linea della pacatezza, che poi è la stessa del Governo che con Giorgia Meloni in primis ripete all’unisono no panic, no allarmismi. Tutti si attengono al medesimo copione. «Quello dei dazi – dice Bricolo – è un problema che ha la sua rilevanza, importante, che non deve essere in nessuno modo sottovalutato, ma riguarda tutti i paesi produttori del mondo, riguarda i francesi, gli spagnoli, riguarda la Grecia, la Germania, paesi come il Sudafrica, il Cile, l’Australia».
Se la morigeratezza è la cifra della discussione, sullo stesso palco si decide tra un intervento e l’altro la linea comune: i contro dazi europei non sono la risposta giusta, con il presidente americano si deve negoziare. Lo dice tra le righe il presidente dell’Agenzia Ice, Matteo Zoppas, che sta lavorando a un vademecum per aiutare le imprese: «Quando si dice “non allarmismo” non significa che i dazi non sono importanti, significa che dobbiamo affrontare il tema con razionalità, non dobbiamo sbagliare né la tecnica né la strategia per aggredirli. Ricordo che abbiamo una premier che ha ottimi rapporti con l’amministrazione americana». Lo dice molto più schiettamente Marzia Varvaglione, neopresidente del Ceev, nel suo intervento: «Non bisogna avere un approccio di muro contro muro, dobbiamo essere realistici e non possiamo pensare di combattere con un “contro dazio”, ma serve un’apertura al dialogo».
La linea della cautela è sulla bocca di tutto il parterre. Quello del ministro Urso è stato l’intervento più accorato, in cui ha ricordato i vecchi dazi, quelli già esistenti, no panic, no allarmismi. Stiamo calmi. Meglio accelerare sui nuovi liberi scambi nelle aree che sono più promettenti e non imporre dazi europei agli statunitensi. E poi i numeri che definiscono le scelte: «Secondo Banca centrale europea, l’impatto daziale americano sulla crescita europea sarà dello 0,3 per cento del Pil, se l’Europa reagisse con lo stesso strumento realizzando dei dazi di ritorsione l’impatto sulla crescita aumenterebbe negativamente allo 0,5 per cento». Secondo altri analisi, si potrebbe arrivare addirittura all’un per cento.
Tra un intervento e l’altro, più di qualcuno lascia la sala. I temi non sono affatto leggeri, ma ci ha pensato il ministro Giuli a interrompere la schiera di interventi monotono. Introduce Omero («Il mare è nero come il vino»), parla di banchetti luculliano, eserciti e fiaschi, accordi di pace sottoscritti con un brindisi, il vino come strumento di conversazione tra i filosofi, cita pure il papa scherzando senza palesarlo sul “suo” paganesimo. «Non sono sospettabile fi fanatismo religioso, ma come si fa a criminalizzare il vino quando è al cuore della liturgia della messa, come si fa a dire che è dannoso quando milioni di persone vi vedono la transustanziazione del sangue di Cristo», o in altre culture «di Bacco o di Dioniso». Grandi applausi, qualche sorriso interdetto.
Quando tocca al ministro Lollobrigida metà della sala è vuota, alla spicciolata in tanti sono tornati agli stand. Complici anche gli interventi che hanno sforato il timing. Il ministro il tema dei dazi quasi non lo affronta, lo lascia in chiusura, e ne approfitta per togliersi un sassolino dalla scarpa con una lunga invettiva contro chi in Europa vuole inserire nelle etichette il riferimento agli effetti cancerogeni dell’alcol: «Una polemica ridicola che fa del vino un problema della salute, semmai è l’abuso che è un problema». Applausi dei presenti. Se nelle scorse settimane in un’intervista alla Stampa non aveva escluso ritorsioni contro gli Stati Uniti («Con i dazi a rischio l’alleanza con gli Usa»), negli ultimi giorni ha vestito i panni del realista e ha teso alla prudenza: «Abbiamo il dovere di proteggere il vino», ma «non dobbiamo fare la guerra agli Stati Uniti». Il vino rappresenta il 10 per cento del nostro export mondiale «e non intendiamo rinunciarci». La criminalizzazione e paura «sono i due nemici peggiori di qualsiasi dazio». Ancora applausi dei presenti.
L’operazione realismo, se pur timido, è in parte riuscita. Per dirla con le parole poetiche del ministro della Cultura: «Il vino vince e vincerà, quali che siano i dazi». E soprattutto il Governo c’è, è stato detto in tutte le salse, ma siamo sicuri che il mondo del vino ne sia convinto?
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