A Château Rouge la strada è viva. Ti sbatte addosso. Un venditore ambulante spinge tra la folla un carrello sgangherato carico di sacchi di riso e di fagioli dall’occhio, gridando alle persone che gli bloccano la strada. È più rassegnato che innervosito e riesce a schivare solo all’ultimo i bambini con il pallone, e il macellaio gli urla qualcosa contro perché uno di quei bambini è il suo, e quello gli risponde e il fruttivendolo interviene e tutto è trambusto e profumo di spezie al mercato africano di via Dejean, quando la signora mi chiede per l’ennesima volta quante akara voglio. «Trois».
Mi allontano con la bustina di frittelle e le guardo brillare al sole: la crosta dorata e tonda splende attraverso la plastica come avessi in mano un sacchetto di gemme. Château Rouge si fa umile ai piedi della basilica del Sacro Cuore di Montmartre, proprio sotto alla collina invasa da turisti di tutto il mondo, eppure nessuno dei loro flash illumina via Dejean.
Le persone tra i banchi di frutta e verdura sono di qui, di Parigi, ma la maggior parte non vive in questo arrondissement. Che si venga dal Congo, dal Senegal o dalla Costa D’Avorio, il mercato di Château Rouge ha quello che serve per preparare il tuo saka-saka o lo yassa o il kedjenou. I manifesti coprono ogni muro, parlano senza fermarsi mai. Raccontano della “Serata Ghanese”, di quella del Sierra Leone; promettono la pace eterna alla prossima riunione della chiesa pentecostale, di quella evangelica, di quelle indipendenti. È festa, religione, conferenze sulla “maledizione nera”.
Apro la bustina e affondo i denti nella prima delle frittelle nigeriane: l’impasto di fagioli è soffice e piccante, lo sento scrocchiare, poi piegarsi e pungere. Il peperoncino e la cipolla si combinano insieme per scuotermi e lasciarmi affamato, impaziente di mordere la seconda akara e la terza e le finisco prima di rendermene conto.
Il mercato si srotola lungo le stradine secondarie, disperdendosi in sartorie, sportelli di cambio, negozi di telefonia, di tessuti, di cosmesi. I sacchi di curcuma, noce moscata, cannella e pepe colorano la strada e i mazzi di foglie di ugu ondeggiano sbucando dalle buste della spesa: tutto è frenetico e colorato. Una signora accanto a me sta scegliendo alcune sfere bitorzolute da una cesta: è il dawa dawa, il prodotto della fermentazione dei semi di carruba africana. La donna mi vede stupito e mi inizia a spiegare a cosa le serve prima ancora che io riesca ad aprire Google Translate sul telefono.
È del Mali e stasera preparerà il mafè, il piatto preferito di suo figlio: ci passerà tutto il pomeriggio. Appunto ogni dettaglio di questo stufato di agnello, insaporito da patate, peperoni, cipolle e carote. Lo immagino morbido, cremoso, reso vellutato dalla base di pasta d’arachidi e con accanto una montagnola di riso bianco e profumato. Ringrazio per il regalo e seguo la fame, spintonato e spintonando, e sono troppo curioso per capire dove stia andando, fino a che mi trovo davanti l’insegna rattoppata del locale. Non saprei dire come si chiama: la saletta, rimediata nella facciata sbilenca di un palazzo, sarà di una decina di metri quadri.
Sul muro ci sono due menù plastificati unti dall’aria grassa e viziata del negozietto e mi siedo gomito a gomito con la coppia di amici accanto a me. Decidono loro cosa mangerò oggi e al tavolo arriva un piatto fondo colmo di riso, con un filetto di cernia steso per lungo. Tocchi di carote e melanzana affiorano dal riso e il sapore rivela il dolciastro della manioca, l’aspro sfumato del tamarindo e ancora note che non so decifrare, essenze familiari ma indistinte. Uno dei due ragazzi mi allunga un boccone di carne dal vassoio che gli è appena arrivato al tavolo: faccio segno di no con la mano per non approfittare della sua gentilezza ma insiste.
Comincio a litigare un’altra volta con Google Translate e il ragazzo intanto ride e mi mi spiega: la teranga è sacra in Senegal. Accogliere un ospite, anche uno sconosciuto, con un sorriso e farlo sentire a casa offrendogli un bicchiere e il pezzo di carne più tenero del piatto: la teranga è solidarietà, condivisione.
Mi chiedono che ci faccio qui intorno e gli rispondo che aspetto stasera, quando arriveranno le griglie. I loro volti si incupiscono per un momento ma è una nuvola che passa veloce: mi consigliano la brace migliore, quale dei venditori abbia la carne più buona. «Stai attento: il quartiere è molto più sicuro di tempo fa, ma stai attento. E quando iniziano a cucinare non fare foto: in molti qui hanno problemi con l’ufficio di immigrazione o non hanno i permessi per grigliare. Nessuno vuole problemi»
Trascorro il pomeriggio per le strade di Montmartre, l’altro volto della zona: nelle vetrine delle pasticcerie si accumulano in mostra confezioni infiocchettate e scatole colorate rivestite di tessuto. Le cioccolaterie sono aperte ad ogni ora del giorno e i forni sono eleganti e costosi: croissant e magneti della torre Eiffel sfilano tra le mani che scambiano banconote, monete, bancomat.
Torno a Château Rouge quando arriva il buio. La negoziazione d’identità è un collare a strozzo che tira tra chi siamo, chi vogliamo essere e chi ci dicono di diventare: i ragazzi francesi di seconda e terza generazione sono appoggiati all’ingresso del KFC sopra la fermata della metro. Qualcuno ha in mano dei panini del fast food, altri vaschette di riso con pollo.
Cosa vuol dire integrazione e come posso capire con chi è giusto integrarmi?
Dalle scale della metro il via via della folla continua incessante, tra turisti che hanno trovato in zona le sistemazioni più economiche e impiegati del centro che tornano a casa. È un rimescolarsi continuo e confuso e pedoni e biciclette si confondono ai fumi della brace. Sono arrivati.
Sistemate su bombole fissate al marciapiede o sopra carrelli della spesa sgangherati, le griglie bruciano incandescenti. Gli stecchi di carne e pesce sfrigolano gocciolando grasso sui fogli di alluminio e tutt’intorno mani affamate si passano bouquet di spiedini.
Cerco con lo sguardo il volto che mi hanno descritto i due ragazzi a pranzo – la barba folta, i capelli radi – e quando credo di averlo riconosciuto mi avvicino ad uno dei carrelli: dentro c’è incastrata una pentolaccia piena di brace a carbonella e in cima una griglia colma di carne schizza tutta la sua rabbia sull’uomo, indifferente. Le prime occhiate che ricevo sono diffidenti, ma ho imparato. «Trois» dico, indicando la griglia.
L’uomo torna serio: controlla che ogni suya sia cotto fino a diventare dorato e leggermente croccante all’esterno, lo rigira, passa al successivo. I tocchi di carne degli spiedini sono di colori diversi: c’è pollo, manzo e credo della capra.
Le sfumature, invece, le dipinge la marinatura: peperoncino, cumino, pepe di Caienna, paprika, aglio in polvere e arachidi macinate. Si chiama yaji, è la miscela di spezie nigeriana che ognuno qui personalizza a seconda dei suoi segreti. L’uomo mi passa i suya facendomi segno di assaggiare e mi resta a guardare mentre li mordo: la carne è calda di spezie e le arachidi macinate affinano il gioco di consistenze.
Avevano ragione i ragazzi al ristorante.
Mi guardo intorno perso tra il chiacchiericcio delle persone e l’eco delle bottiglie vuote che sbattono sull’asfalto. Il freddo di metà febbraio strappa vapore condensato dalla gole di chi è fila davanti le griglie e i suya continuano a crepitare sugli stecchi di legno macchiati di grasso sciolto, sparendo appena pronti e subito rimpiazzati da altri stecchi di carne cruda.
C’è una bellezza brutale nel disordine di questo mercato, note stonate e ipnotiche legano giorno e notte tra i banchi di via Dejean. Il mercato di Château Rouge respira addosso ai suoi abitanti con una frenesia eccitata di giorno quanto lenta e molle di notte, ma marca il proprio tempo senza cederlo a nessun altro, orgoglioso. Resto immobile a masticare in questo confine aperto verso possibilità che sfuggono oltre i palazzi del quartiere, disperdendosi nel vento gelido di Parigi.
Quando finisco i suya, l’uomo mi sta ancora guardando.
Annuisce severo senza dire nulla e mi strappa dalle mani gli spiedini vuoti, gettandoli in un sacco nero. Poi stende l’orata sulla griglia e mi chiede di aspettare.
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