Il 200% terrorizzava, il 20% faceva molta paura, il 10% preoccupa. Diciamo pure che “tranquillità” è una parola che nel vocabolario italiano-americano non è più contemplata. Nemmeno il vertice bilaterale, tra l’istituzionale e l’amichevole, che ha visto faccia a faccia il presidente Donald Trump e la premier italiana Giorgia Meloni ha potuto rimettere le cose a posto.
L’Unione europea e gli Stati Uniti si trovano attualmente in un esteso limbo di 90 giorni, nel quale si capirà se la guerra commerciale potrà deflagrare ed espandersi o, al contrario, sciogliersi in una stretta di mano tra Trump e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Sta di fatto che le imprese vitivinicole non dormono sonni tranquilli: troppo pressante lo spettro di una recessione americana trascinata da una probabile ascesa dell’inflazione nel settore agroalimentare, collegata a quel 10% di dazi all’import made in Europe e alla guerra commerciale dichiarata, e tuttora in atto, con la Cina.
È vero che, dopo il clamoroso blocco subito a marzo, a breve distanza dal Vinitaly (con le merci ferme nei porti e nei depositi), gli ordinativi per il vino italiano negli Stati Uniti sono finalmente ripartiti e le cantine hanno tirato un sospiro di sollievo. Ed è questa la buona notizia. Ma il clima permane di forte volatilità e, all’orizzonte, non ci sono segnali di intese tra produttori di vino italiani e distributori e importatori americani, che non se la sentono di accollarsi alcun sovrapprezzo. Tutti restano in attesa, timorosi di fare passi troppo impegnativi. Anche perché gli umori della Casa Bianca (ora alle prese con una dura opposizione interna, come nel caso della democratica California che annunciato una causa legale contro una scellerata politica dei repubblicani al potere) sono talmente indefiniti da rendere difficile qualsiasi previsione persino nel brevissimo termine. Il risultato è che, nel settore del beverage, come anche in altri, si naviga a vista, ognuno con l’idea di difendere le posizioni acquisite.
bottiglie di vino su scaffali – foto di Brandy Turner su Unsplash
Il vino italiano, che sappiamo essere particolarmente esposto ai dazi sul mercato a stelle e strisce (prima piazza al mondo e primo cliente per l’Italia, con quasi 2 miliardi di euro acquistati nel 2024), conta diverse denominazioni “fragili”. Dal Vino Chianti al Pinot grigio, dal Moscato d’Asti al Chianti Classico e, ovviamente, al Prosecco.
Il settimanale Tre Bicchieri del Gambero Rosso ha provato a tastare il terreno con alcuni enti di tutela, in un breve sondaggio che ha rilevato, sicuramente, meno tensioni rispetto alla situazione di due o tre settimane fa. I vini made in Italy hanno, infatti, ripreso a solcare l’Atlantico, qualcuno addirittura sta registrando sorprendenti incrementi nelle spedizioni, ma ha anche fatto emergere come il nervo sia ancora scoperto. Il focus, d’ora in avanti, si sposterà, da un lato, sui negoziati – per lasciare spazio al dialogo, dal 16 aprile l’Ue ha ufficialmente sospeso i contro-dazi nei confronti degli Usa – e, dall’altro lato, sull’atteggiamento dei consumatori e sul rischio che le etichette italiane possano essere sostituite in un solo colpo da quelle dei competitor, anche per una lieve differenza di prezzo a scaffale. E questo problema interessa soprattutto le fasce più “popular” del vino nazionale.
L’Asti Docg è tra i Consorzi di tutela con atteggiamento estremamente realista. La denominazione piemontese, che negli Usa vende circa 25 milioni di bottiglie l’anno, si colloca nel canale off premise (quindi Gdo e dettaglianti) in una forbice di prezzo a bottiglia tra 9,99 dollari e 12,99 dollari, con una parte di etichette nella fascia superiore, fino a 15,99 dollari.
«Le spedizioni sono riprese – racconta il presidente Stefano Ricagno – ma la nostra posizione è delicata, perché siamo una Docg col nome del vitigno in etichetta e subiamo la concorrenza di tutti quei competitor che possono scrivere la parola “moscato” sulle bottiglie, a partire da quelli californiani. Questa condizione, pur avendo una leadership e un prestigio mondiali nella categoria dei vini naturalmente a bassa gradazione, ci rende facilmente sostituibili se dovessimo uscire da quelle fasce di prezzo».
Il direttore Giacomo Pondini spiega che il dazio al 10% negli Usa è una soglia tutto sommato accettabile rispetto al 20% prospettata inizialmente, anche se «occorre capire se sarà applicata una sola volta oppure tante volte quanti sono i vari anelli della filiera, a partire dallo sdoganamento». Intanto, il primo trimestre 2025, fa sapere il Consorzio, non ha registrato cali nelle spedizioni. Anche per questo, proseguiranno «senza cambiamenti» le promozioni con fondi Ocm approvate nel 2024: pubblicità in catene della ristorazione, iniziative digital, abbinamenti alle ricorrenze locali, con un occhio alle fiere di settore.
Moscato d’Asti Docg- foto Consorzio di tutela
Sorprendente la situazione del Chianti Classico. Carlotta Gori, alla direzione dell’ente toscano che sui 7.200 ettari produce oltre 35 milioni di bottiglie, spiega che le sensazioni sono positive e che le spedizioni verso gli Stati Uniti sono ripartite, con «gli scambi che si sono ripresi se non addirittura intensificati». Il dazio aggiuntivo del dieci per cento resta un fardello, tuttavia c’è ottimismo per il futuro: «Siamo convinti – fa notare Gori – che il consumatore americano, che da sempre ama e consuma il Chianti Classico, resterà fedele ai vini di qualità, al Gallo Nero, al nostro territorio che si rispecchia in ogni bottiglia».
La grande distribuzione americana è il maggior cliente del Vino Chianti Docg, che ogni anno vende negli Stati Uniti da 15 a 20 milioni di bottiglie, pari a circa il 25% dell’export totale. La storica denominazione toscana ha registrato forti ordinativi a gennaio e febbraio, come spiega il neo direttore Saverio Galli Torrini: «Successivamente, nell’incertezza sui dazi, i distributori hanno bloccato gli ordini. E il trimestre nel suo complesso si è chiuso a -30 per cento sul 2024. Ora, coi dazi al 10% c’è stata una ripresa anche se non si tratta di un banale rincaro, se lo si guarda nell’ottica di una contrazione del mercato. Infatti – sottolinea – gli eventuali aumenti a scaffale potrebbero portare, in particolare per il Chianti, che è un vino venduto in quantità importanti, a una riduzione significativa dei volumi venduti».
Il nodo sta proprio nel mancato accordo tra produttori, importatori e distributori: «Ad oggi non c’è – rimarca Galli Torrini – per cui il sovrapprezzo andrebbe a cadere sul consumatore e sul costo finale dei vini. E per le fasce entry level questo sarebbe un problema». A fronte di un’instabilità, il futuro non appare roseo: «Considerando le stime su una possibile recessione dell’economia americana e su un aumento dell’inflazione, auspichiamo un eventuale accordo Usa-Ue per riportare allo zero questi dazi». Altrimenti, il pericolo tra gli scaffali statunitensi è che il Chianti Docg sia «sostituito dai vini di Cile e Argentina», che hanno prezzi inferiori.
Saverio Galli Torrini – direttore Consorzio vino Chianti
Nel mare magnum dei dazi ci è finito ovviamente anche il Prosecco Doc. La super denominazione da 660 milioni di bottiglie nel 2024 ha negli Stati Uniti un cliente speciale, che vale mezzo miliardo di euro, considerando che ogni anno oltre oceano arrivano 130 milioni di bottiglie, il 23% dell’export dell’intera Doc veneto-friulana. Un peso non da poco per il presidente del Consorzio della Doc, Giancarlo Guidolin, che a fine marzo, assieme a Franco Adami (Conegliano Valdobbiadene) e Michele Noal (Asolo), aveva lanciato un grido d’allarme: «Non nascondo che i continui cambiamenti di scenario non ci consentono di fare alcuna previsione. Riteniamo positivo – dice al settimanale Tre Bicchieri – che la questione dazi sia all’attenzione delle autorità competenti e che gli scenari inizialmente ipotizzati si siano rivelati meno preoccupanti del previsto».
Per l’ente di tutela, il faro resta la recente considerazione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «I dazi creano ostacoli e alterano i mercati»; ma anche le parole della premier Giorgia Meloni, che ha ricordato come «i prodotti italiani generino ricchezza nei paesi che li importano, ancor più che nel nostro». Una cosa è certa, secondo Guidolin: «Qualora i dazi dovessero permanere, incideranno inevitabilmente o sugli operatori o sui consumatori americani».
Stefano Sequino, direttore Consorzio della Doc Pinot Grigio (230 milioni di bottiglie su 27mila ettari), che ha negli Stati Uniti il primo mercato di riferimento, parla di «situazione complessa e in continua evoluzione: alcuni importatori – racconta al settimanale Tre Bicchieri – stanno adottando un atteggiamento prudente, rallentando gli acquisti, mentre altri continuano a operare in maniera fluida».
I dati di febbraio indicano un +3% dell’export di Pinot grigio Doc delle Venezie, rispetto a febbraio 2024, ma «è ancora presto – precisa Sequino – per dire se sia reale crescita dei consumi o strategia di approvvigionamento anticipato». Il Consorzio presieduto da Albino Armani si dice realmente preoccupato, dal momento che gli Usa sono fondamentali per la Doc. «L’attuale riduzione della tassazione al 10% – aggiunge il direttore – apre a una visione più rassicurante. Aumentarla sarebbe un duro colpo, ma non saremo impreparati. I dazi rischiano di colpire trasversalmente l’intero settore e, in questo contesto, dobbiamo evitare convergenze di elementi sfavorevoli, tra cui stagnazione economica, calo dei consumi, cambiamenti negli stili di vita delle nuove generazioni e nuove restrizioni».
Anche per questo la Doc, come già abbiamo raccontato a gennaio 2025 sul settimanale Tre Bicchieri, sta studiando l’introduzione di una tipologia a basso grado e ha aperto all’uso di vitigni resistenti. Per dirla in breve: ogni campo è strada.
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