Da prelibatezza per pochi a genere alimentare di largo consumo. Il passo è stato breve. In pochi decenni il salmone da alimento di lusso diventa uno dei pesci più a buon mercato che esistano. Difficile trovare una specie ittica che rappresenti meglio del salmone la globalizzazione alimentare. Dai supermercati ai ristoranti, ormai è parte della proposta gastronomica dei locali di tutto il mondo. Gli anni Ottanta, periodo in cui il suo successo risulta legato anche al piatto cult per eccellenza, le pennette con la panna, sono lontani. Eppure, la sua popolarità appare tutt’altro che tramontata. Oggi, non può mancare ovunque si mangi sushi o pesce crudo. Potreste mai immaginare un All you can eat che non abbia in carta del sashimi di salmone? A livello nutrizionale le sue proprietà non andrebbero discusse, visto che può costituire una preziosa fonte di acidi grassi Omega-3, vitamine e sali minerali. Ma quello che finisce sulle nostre tavole potrebbe rivelarsi meno nutriente o salubre del previsto, magari in controtendenza con l’esigenza contemporanea di mangiare in modo etico e sostenibile. Da cosa dipende? Dalle criticità che possono presentare i suoi allevamenti e più in generale l’acquacoltura. E pensare che quest’ultima continua a essere identificata dalle istituzioni come una delle possibili risposte al dilemma del nostro secolo, l’eventualità che di qui a qualche tempo le risorse alimentari non siano sufficienti per tutti.
Secondo le Nazioni Unite la popolazione mondiale sfiorerà i 10 miliardi nel giro di sessant’anni. Una stima di 2 miliardi di abitanti in più rispetto ai numeri attuali. Tale crescita demografica pone l’inevitabile quesito: la produzione di cibo sarà in grado di reggere la pressione della domanda futura? Di questo passo, il rischio di una crisi alimentare globale è dietro l’angolo.
A preoccupare le istituzioni sono soprattutto i volumi derivanti dagli allevamenti di bestiame, in prospettiva incapaci di soddisfare la richiesta di proteine che secondo l’ONU dovrebbe aumentare del 70% entro il 2050. Se non fosse per l’emergenza spopolamento dei mari di cui è responsabile l’overfishing degli ultimi 50 anni, il pesce di cattura sarebbe una valida alternativa alla carne. Il depauperamento delle nostre acque, con varie specie ittiche a rischio estinzione, ha portato però a guardare altrove. È così che sin dall’inizio del secolo l’acquacoltura viene individuata dalla FAO quale soluzione alla scarsità alimentare. La Food and Agriculture Organization of the United Nations la mette al centro della propria Blue Transformation nella lotta alla fame e alla povertà nel mondo. Tanto è vero che sollecita a più riprese l’Unione Europea a finanziare lo sviluppo del settore. Nel 2020 un forte segnale politico arriva dal Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura (FEAMPA): a fronte della penuria dei bacini mediterranei vengono stanziati 6,1 miliardi di euro in relazione al periodo 2021-2027.
Salmonicultura
L’acquacoltura è una pratica millenaria. Nasce 4.000 anni fa in Cina, paese da cui si è pian piano diffusa nel resto del mondo fino a diventare una delle industrie in più rapida crescita del XXI secolo. Il business dell’allevamento e della raccolta di organismi acquatici in acqua dolce e salata per il consumo umano e la conservazione è cresciuto a ritmi record. Il rapporto SOFIA del 2024 della FAO evidenzia un’espansione senza precedenti: nel 2022 l’acquicoltura ha superato per la prima volta la pesca di cattura in termini di produzione (94,4 milioni di tonnellate contro i 92,3 del pesce selvatico). Considerando l’incremento della popolazione mondiale da qui al 2050, secondo lo stesso report sarebbe necessario ampliare la fornitura di 36 milioni di tonnellate, pari a un aumento del 22%. La strategia che delinea la piscicoltura come attività per garantire la sicurezza alimentare presuppone che la produzione, tra nuove tecnologie e investimenti, prosegua con tutti i crismi. A partire dal fatto che diventi davvero sostenibile e dia così un contributo alla ricostituzione degli stock ittici e dunque alla tutela della fauna marina, in linea con quanto previsto dal Green Deal europeo.
La visione politico-istituzionale che punta sugli allevamenti si scontra con la posizione degli animalisti soprattutto quando si parla di salmonicultura. Di clamore mediatico le inchieste portate avanti da investigatori sotto copertura, che hanno offerto un ritratto preoccupante della filiera intensiva scozzese. Le prove schiaccianti raccolte nel 2021 dagli ispettori della rete globale di associazioni guidate dall’organizzazione CIWF, Compassion In World Farming, inchiodano le multinazionali che detenevano il monopolio gaelico. Le immagini, tuttora disponibili su essereanimali.org, mostrano l’habitat malsano in cui allevavano la specie atlantica salmo salar, quella più commercializzata: spazi limitati, a dir poco claustrofobici, caratterizzati da acque luride, piene di alghe ed escrementi. Per non parlare delle condizioni degli esemplari allevati: sofferenti, mancanti di parti anatomiche e rosi dalle death crowns, dei “collari” di pidocchi marini che si insinuano sotto la testa del pesce. Una proliferazione di parassiti e malattie tale da innalzare i tassi di mortalità dei salmoni, che non fanno sempre in tempo ad arrivare alla macellazione: già nel 2012 — stando al National Geographic — gli allevamenti scozzesi hanno perso quasi il 10% del loro pesce a causa della malattia delle branchie amebiche, mentre in Cile dal 2007 sono andati persi almeno 2 miliardi di dollari di salmone per via dell’anemia infettiva. Anni dopo, i numeri non sembrano migliorati neanche in Norvegia. Per dire, il resoconto del Norwegian Veterinary Institute relativo alla fase di crescita in mare del 2023 segnala una mortalità del 16,7%, pari a ben 62,8 milioni di salmoni.
A incidere sulla moria potrebbero essere le sostanze chimiche adoperate e le pratiche messe in campo per “sanificare” gli allevamenti, misure che possono stressare il pesce causandone il decesso prematuro. Sono queste le accuse delle ONG alla moderna industria di salmone. Anche se tra gli esperti c’è chi sostiene che le statistiche siano da considerare alla luce di un’analisi più profonda che coinvolga il cambiamento climatico e il surriscaldamento degli oceani, fenomeno che insieme alla mancanza di ricircolo delle acque sembra contribuire all’insalubrità ambientale di qualche gabbia galleggiante.
La condanna degli animalisti nei confronti del settore non riguarda però solo le presunte violazioni al benessere animale, ma anche l’impatto che avrebbe sugli ecosistemi circostanti: da una parte, la morte della flora marittima e la conseguente desertificazione dei fondali a causa dell’inquinamento prodotto dall’eutrofizzazione; dall’altra, la riduzione delle popolazioni di salmonidi selvatici (specie atlantica, trota di mare, salmone rosa, chum e coho), dimostrata dallo studio su Plos Biology che valuta perfino i casi di esemplari scappati — pochi giorni fa ne son fuggiti ben 27mila da uno stabilimento norvegese — individuandone le ripercussioni sugli stock selvaggi: ibridazione e trasmissione sia di malattie che di parassiti. A questo si aggiunge un’alimentazione che, seppur diversificata rispetto al passato, continua a sfruttare altre risorse ittiche: il pesce azzurro di piccola taglia da trasformare in mangime. Cosa un po’ curiosa per una pratica che viene finanziata da enti nazionali e sovranazionali per salvaguardare la biodiversità. Tutti aspetti su cui fanno leva coloro che gridano all’insostenibilità del modello produttivo. Una visione che non apre ad alcun tipo di allevamento, fosse pure estensivo.
A parlare con dei professionisti della ristorazione sembra che il mercato attuale proponga dei campioni affumicati di maggior pregio rispetto ai decenni precedenti. Almeno in Italia è cresciuta la consapevolezza del consumatore che adesso rincorre l’idea di acquistare il salmone di qualità, l’immagine di un pesce libero in natura che balza controcorrente in mezzo a rapide e cascate. Un indizio ci viene fornito dai packaging della GDO, negli anni decisamente migliorati. Nonostante l’inflazione, il prezzo rimane accessibile facendone una specie ittica alla portata di tutti.
Ma tutto questo, come accennato, ha dei “costi”. Per noi, i pesci e il pianeta. Consideriamo la possibilità che sia meno sano di quanto vorremmo. Le dottoresse Anne-Lise Bjorke Monsen e Claudette Bethune hanno rischiato la propria carriera per mettere in guardia dalle tracce di tossine e cadmio accertate in taluni campioni. Per naturalnews.com il consumo di filetti di salmone d’allevamento sarebbe correlato all’obesità e al diabete. La stessa racconta dell’uso di coloranti artificiali che richiamino in qualche misura il tipo selvatico; i produttori prendono spunto dalla tabella di colori Salmo Fan per far sì che le carni non scoprano le proprie tonalità grigiastre. Non mancano le testimonianze di ristoratori e chef romani come Alessandro Roscioli (Salumeria Roscioli), Emanuele Smimmo (Il Pescatorio) e Claudio Farinelli (Umami) che alla ricerca della materia prima migliore si sono imbattuti in carni meno tenaci e consistenti, con più grasso intramuscolare e dal rilascio veloce di oli essenziali.
Tra selezionatori e distributori, non sono in pochi a ritenere che il problema non sia in sé l’acquacoltura, bensì il suo processo di intensificazione. A fare la differenza sarebbe il lavoro della singola azienda, a prescindere dalla certificazione (biologica, ASC, Friend of the Sea, MSC, ecc.), o dall’origine (il paese sede dell’allevamento). E al di là di quanto si possa credere, lasciando per un attimo da parte il problema della sovrapesca, il salmone selvatico non è per forza sinonimo di qualità. Insomma, anche qui pregiudizi e luoghi comuni lasciano a desiderare. Lo carpiamo dalle parole di Claudio Cerati di Upstream Salmons: «Non si deve associare la qualità di un salmone al paese di provenienza. Sbagliato chiedere se è scozzese o norvegese. Esistono poi diverse denominazioni. Conta solo la produzione: ci sono allevamenti attenti che, finita la crescita degli esemplari, li aspirano con cura di modo che non muoiano per asfissia ammassati nelle reti; nelle isole Faroe, per esempio, smontano la rete e la ricollocano in un’altra area per favorire il flusso delle acque scongiurando il pericolo che l’habitat diventi stagnante. Difficile immaginare un salmone di qualità se i costi della filiera restano bassi. Che il selvaggio sia migliore invece è solo una percezione. Praticamente un brand. Fra l’altro il salmone viene in genere lavorato da decongelato, mentre quello d’allevamento spesso da fresco».
Sulla stessa lunghezza d’onda Lorenzo Uleri, manager della società d’importazione Longino&Cardenal: «Il salmone affumicato è un alimento che può essere di estrema qualità o pessimo, e questo dipende in gran parte dal prodotto di partenza e dal produttore. Le modalità con cui viene allevato il pesce ne determinano il valore, che passa anche dal benessere animale e da un’alimentazione naturale. L’utilizzo di antibiotici e mangimi addizionati di sostanze chimiche certamente non aiuta ad avere un prodotto di qualità. E la dicitura bio non ne è per forza indice. Servono delle standardizzazioni visto che l’artigianalità non riesce sempre a garantire gli standard di qualità desiderati. Difficile al momento individuare un modello ideale di acquacoltura, perché bisognerebbe trovare una soluzione intermedia fra il prezzo più alto derivante da un allevamento sostenibile e quello più basso dell’intensivo che rende il prodotto commercializzato alla portata di tutti. In alcuni stati l’allevamento intensivo è stato vietato per dare spazio a quello sostenibile. Non ci sono altre strade. La specie selvatica lasciamola stare: fa già i conti con il rischio d’estinzione, considerando la pesca incontrollata, l’inquinamento delle acque e le dighe che ne frenano la naturale migrazione».
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