Era il dicembre 2013 quando in un quartiere in via di trasformazione, le Varesine, apriva Berton, il ristorante in cui lo chef friulano allievo di Gualtiero Marchesi (lui davvero) metteva il nome, l’altezza e la faccia. Dieci anni (abbondanti) di Milano contemporanea per uno chef che aveva già conquistato la città alla guida della cucina di Trussardi alla Scala (due stelle dal 2009 al 2012) ma che aprendo in via Mike Bongiorno si prendeva il rischio di farsi crescere attorno la città dei grattacieli.
Andrea Berton, che cos’era il quartiere di Porta Nuova quando lei apriva, dieci anni fa?
Era un work in progress, un quartiere che era solo al 60 per cento di quello che è diventato. E’ stata una sfida, all’inizio ero solo, poi sono arrivati altri locali, altri ristoranti”.
Ce ne sarà voluta di visione…
Possiamo chiamarla visione. Io la chiamo scelta. Avevo deciso che se un giorno avessi aperto un ristorante tutto mio, lo avrei fatto in un luogo nuovo che non avesse nessun tipo di collegamento con il passato. Questa mi sembrava la zona più adatta, la zona perfetta.
Pensa quindi che in una zona vergine sia più facile proporre un certo tipo di cucina diciamo evoluta?
No, su questo non vedo limiti, la cucina si evolve in base alle persone e non in base alla posizione.
La gente veniva volentieri a mangiare in una zona-cantiere?
In realtà non ho mai avuto grosse difficoltà, la gente era incuriosita di scoprire una zona ancora inesistente. Oggi le persone sono curiose di posti nuovi. E’ anche per questo che ho aperto alle ex Varesine.
Che Milano era quella del 2014 gastronomicamente parlando?
Era una Milano che iniziava a crescere, c’era già nell’aria una bella energia, voglia di mettere in pratica idee nuove. Tutti ricollegano l’esplosione di Milano all’Expo del 2015 ma in realtà già da qualche anno prima si era partiti con nuovi format, nuove idee e si puntava molto sulla qualità del prodotto. Certo c’erano meno locali di adesso….
Quella certa energia c’è ancora?
Dal mio punto di vista c’è ancora, si percepisce ed è positivo. Milano è una città in evoluzione, dove vieni a scoprire le nuove tendenze, come un tempo accadeva per Londra, Parigi, New York.
Nessun aspetto negativo?
Forse aprono troppi locali, ma questo succede in tutte le grandi città. Poi certo, c’è una selezione naturale. Vediamo quanti di quei locali saranno aperti tra dieci anni. No, forse tra cinque. Ma è giusto che chiunque possa mettersi alla prova nella ristorazione a patto che lo faccia con rispetto del cliente e della qualità del prodotto.
Lei non si sente minacciato da tanti format posticci?
Noi siamo sempre attenti ai cambiamenti, ai movimenti, devi sempre essere pronto a sopperire a momenti in cui ti trovano meno interessante. Le persone scelgono ogni giorno, magari per un periodo non ti frequentano più perché provano cose nuove e poi vedi che tornano e sono felici di tornare e questa è la più grande soddisfazione. Ti dicono: qui dopo dieci anni siete ancora attuali. Alla fine è la cosa che ci fa andare avanti.
In termini di gusto è cambiato qualcosa in questi dieci anni?
Il cliente è molto più preparato, affinato nel gusto e questo è servito anche a noi. Oggi ci confrontiamo con persone che hanno una capacità di analisi molto maggiore, e dobbiamo essere aggiornati a tutti i livelli. Le persone sono più disponibili a provare piatti nuovi, abbinamenti un tempo non usuali. Un tempo erano molto più legati alle tradizioni e alle abitudini.
Qual è il piatto o l’idea più importante di dieci anni di Berton da Berton?
Certamente il brodo. Siamo partiti col proporlo già dall’apertura, abbinato in vari modi ai piatti, anche d’estate. In quel momento nessuno utilizzava il brodo come attore protagonista, dopo molti miei colleghi hanno seguito la mia idea e questo mi dà soddisfazione. La cosa funziona anche se all’inizio molti clienti erano diffidenti.
E invece un’idea in cui credeva molto e che non ha funzionato?
Certi fusilli con i frutti di mare in cui credevo molto ma che non ha funzionato.
In questo caso quanto è giusto insistere?
Io provo a correggere il tiro, poi non mi ostino e lascio perdere.
E il piatto bestseller?
Certamente l’aglio, olio e peperoncino. Ho provato a toglierlo ma i clienti si sono ribellati e ho dovuto reinserirlo. Ci sono persone che vengono due o tre volte al mese solo per quel piatto. E c’è addirittura un cliente che una volta al mese se ne mangia due porzioni.
Lei in questi dieci anni ha vissuto tante altre avventure milanesi…
C’è stato Dry, la prima pizzeria con cocktail, fu un’intuizione importante che avemmo con i miei soci, prima di tutti Giovanni Fiorin, che lavorava con me al Trussardi. Poi Pisacco, che ha contribuito a trasformare via Solferino da zona desertificata in una delle vie del food di Milano. E ora c’è Veramente, nato da una collaborazione con i soci Filippo Sironi, Filippo Mottolese, Gianmarco Venturi. Mi piace l’idea di proporre la cucina italiana classica.
E in dieci anni come è cambiato il suo rapporto con la critica?
Qualche volta io i critici gastronomici non li capisco. Alcuni ci odiano e non capisco perché. Altri ti fanno i conti in tasca e ti valutano in base a quanto lavori o non lavori e nemmeno lo sanno. E anche voi del Gambero Rosso mi date un piccolo dispiacere quando nella guida non valorizzate il nostro servizio, che tutti ci dicono essere tra i migliori non solo in Italia. Bisogna valorizzare chi fa bene il cameriere, è un mestiere importante che ti consente di avere a che fare con persone di ogni genere e di crearti una cultura personale importante. Bisogna fare passare questo messaggio, invece ne passa un altro: che se proprio non sai cosa fare nella vita fai il cameriere. Ed è un peccato.