Partiamo da un dato assodato: mangiare più pesce fa bene. La medicina internazionale ce lo dice in tutte le lingue del mondo. Altro dato certo, reso noto dalla FAO attraverso il Rapporto SOFIA 2024 e divulgato da tutti i media: nel 2022 per la prima volta l’allevamento ittico ha superato la pesca di cattura, raggiungendo il valore record del 51% della produzione mondiale di animali acquatici. Tradotto in peso: 94,4 milioni di tonnellate contro i 92,3 milioni di tonnellate del pesce catturato allo stato selvaggio.
Il mare è sovrasfruttato e si sta impoverendo della sua fauna: gli stock ittici sono scesi al 60%, il Mediterraneo addirittura del 58%. A fronte di una domanda in continua crescita: dal 1961 il consumo pro capite è più che raddoppiato. Il futuro non è più roseo, anzi: si stima che nel 2050 la popolazione mondiale arriverà intorno ai 10 miliardi di persone. Per sfamarla la produzione ittica dovrà necessariamente aumentare di oltre il 20%. Che ci piaccia o no la produzione ittica è nelle mani dell’acquacoltura. Per questo la FAO spinge verso la Trasformazione blu.
Fino ad alcuni anni fa le associazioni ambientaliste tuonavano contro gli allevamenti ittici. Negli ultimi anni le cose stanno cambiando, quanto meno in Italia e in Europa, e anche le associazioni ambientaliste si stanno ricredendo, grazie anche all’acquacoltura rigenerativa. «La normativa UE è tra le più stringenti per quanto riguarda la produzione agroalimentare e nello specifico l’allevamento ittico, toccando molti punti quali ambiente, come allocazione e parametri di emissione – spiega Andrea Fabris, direttore dell’API, Associazione Piscicoltori Italiani – e ancora sanità e sicurezza alimentare, benessere animale, sicurezza dei lavoratori, sostenibilità socio-economica, tanto per citarne alcuni».
Acquacoltura in Italia
Il nostro Paese ha 800 siti produttivi tra allevamenti in acque dolci, mare e lagune, concentrati per il 60% al nord, il 15% al centro e il 25% al sud. La produzione 2023 ha superato le 51mila tonnellate per un valore di oltre 400 milioni di euro (esclusi i molluschi). Vengono allevate 25 specie ittiche, soprattutto trota, al primo posto con 30.150 tonnellate, seguita da orata e spigola. Una produzione che però non riesce a soddisfare la domanda interna. «Siamo il più grande mercato al consumo europeo e mondiale di prodotti ittici, 30 chili pro capite – fa il punto Andrea Fabris – ma la produzione di spigole e orate a malapena a soddisfa il 20% della richiesta nazionale». Questo è dovuto a problematiche burocratiche, spiega Fabris. «A fronte di oltre 8.000 chilometri di coste attualmente sono attive solo 20 concessioni off-shore per allevamenti in mare. Servono più spazi per l’acquacoltura. E sarebbe importante l'obbligo anche per i ristoranti di dichiarare l'origine del pesce: l’80% di orate e spigole portate in tavola è di provenienza estera». Abbiamo già affrontato i modi per scegliere il pesce fresco catturato in mare aperto... Come scegliere dunque il pesce più "giusto"? E come riconoscere il migliore pesce allevato?
I plus dell’acquacoltura
In primis, il pesce allevato non presenta il rischio di anisakis. Poi, ha meno scarti, mentre nella pesca in mare il 50% di quanto finisce nelle reti è inutilizzabile (piccolo, rovinato, inutilizzabile). Il controllo della produzione (nelle realtà virtuose di acquacultura) è integrale. Inoltre, stando a studi universitari, il pesce allevato non contiene contaminanti (non più di quelli del pesce di cattura).
Si allevano le specie più richieste. E si allevano anche pesci che non esistono più in natura. Insomma, tra tutti i sistemi di allevamento animale (polli, maiali, bovini) l’acquacoltura sembra quello con la più bassa impronta ambientale per uso di risorse (acqua, suolo, energia). Il pairing con gli altri animali allevati per produrre un chilo di carne: 3,3 kg di CO2 contro i 40 kg dei bovini, 8,3 litri d’acqua contro i 29.300 litri per i maiali.