Al bando le cannucce, vietata la pellicola; l'oggetto-feticcio? La borraccia. Era il 2019, un tempo pre Covid ormai lontanissimo, e la battaglia contro la plastica monouso era sulla cresta dell'onda, specialmente tra i barman, che avevano fatto dell'eliminazione della cannuccia il loro motto (il locale Mad di Firenze, per esempio, avvisava tutti i clienti di non fare gli straw-nzi e bere direttamente dal bicchiere). Una pandemia e diverse guerre dopo, l'argomento ha (comprensibilmente) fatto il suo tempo: ma siamo sicuri che mollare la presa sia la scelta giusta?
Plastica superflua
La plastica non è il male assoluto, ormai lo abbiamo capito, ma certo è che un utilizzo massiccio (e superfluo) del materiale non è auspicabile. Pensiamo a quella noiosa finestrella di plastica che continua a essere presente sui pacchi di pasta (separata e riciclata poi nelle cartiere, ma comunque non necessaria) o ai tanti imballaggi eccessivi dell’industria alimentare. La frutta venduta già sbucciata, tanto per dirne una, privata del suo "pacakging" naturale e infilata in un contenitore di plastica: comoda per persone con disabilità o temporaneamente infortunate, ma perlopiù pensata per risparmiare pochi minuti di tempo. E che dire delle verdure integre, imballate in vaschette di polistirolo e avvolte in strati di pellicola? Non sbucciate, non tagliate, solo «protette» (da cosa?): pomodori, zucchine, melanzane che potrebbero essere benissimo infilate nel sacchetto biodegradabile.
Perché il movimento zero waste ci ha stancati
Se persino uno dei migliori forni di Roma abbandona i classici sacchetti di carta, optando per quelli con inserto in plastica (che, lo ripetiamo, può essere riciclato, ma perché sprecarlo quando il cliente sa che pane sta acquistando?), allora forse è bene recuperare un po’ di quella voglia di cambiare le cose che animava i giovani prima del Covid, che il venerdì marciavano ispirati da Greta Thunberg per i Fridays for Future. Specialmente adesso che, con le tante polemiche e novità sulla carne coltivata, il tema dell’alimentazione è sempre più centrale quando si parla di crisi climatica.
Che il movimento zero waste (zero sprechi), plastic free, fatto di spazzolini in bamboo e spugne vegetali ci abbia stancato è lecito. È stata una fede, più che una lotta, fatta con buone intenzioni e poca consapevolezza, portata avanti per ideologismi, tanti slogan e una discreta dose di retorica. Pensiamo alla famosa cannuccia: odiata, ripudiata, trasformata nel simbolo dell’inquinamento, eppure così necessaria, vitale per molte persone. Che senso ha una battaglia ecologica che diventa (come accaduto in questo caso) abilista, marginalizzante, divisiva?
Della connessione tra giustizia climatica e sociale, però, ci siamo resi conto solo in pieno lockdown: sono servite le proteste del Black Lives Matter di Los Angeles, dopo l’assassinio di George Floyd, e l’inizio di quella cultura woke (attenta alle ingiustizie), per molti salvifica, per altri insidiosa (col tempo, il termine è stato utilizzato per indicare un politicamente corretto portato all’estremo e considerato potenzialmente pericoloso).
Non c'è giustizia climatica senza giustizia sociale
C’è stato un prima e dopo la morte di George Floyd, questo è innegabile. Un punto di rottura insanabile che tra gli attivisti ambientali ha segnato la fine di un’epoca. Chi seguiva il mondo zero waste in quel periodo ricorda bene la mattina del 26 maggio 2020: il web era costellato di sfondi neri, gli influencer riversavano fiumi di parole sull'argomento e improvvisamente è arrivata la consapevolezza che vivere a basso impatto ambientale è un privilegio. Fare una spesa consapevole, abitare in una grande città con negozi alla spina, sorgenti d’acqua, latterie con vuoto a rendere è un privilegio. Mangiare burger vegani? Privilegio. Comprare i formaggi alla malga biodinamica famosa tra la gastro-nicchia? Privilegio. Maggiore la scelta, maggiore il privilegio, è così che funziona.
Far sentire la propria voce
Insomma, quella mattina ci siamo svegliati e ci siamo ricordati che non godiamo tutti delle stesse fortune, che ciò che per noi è superfluo (torna la vecchia cannuccia) per altri può essere essenziale. Ecco, non è il caso della finestrella in plastica sui pacchi di pasta, né delle melanzane avvolte nella pellicola o dell’abuso di stoviglie monouso (seppur compostabili) alle feste o le cene tra amici. Forse, è ora di tornare a fare domande. Far sentire la nostra voce, chiedendo alle aziende il motivo di alcune scelte laddove non sembra essercene bisogno, dimostrandoci consumatori attenti, attivi, interessati. Perché è vero che non possiamo salvare il mondo, ma del cambiamento climatico sono prima di tutto le comunità marginalizzate a esserne colpite. E chi, come noi, ha il privilegio di vivere dal lato «giusto» del mondo, ha la responsabilità di lottare anche per chi non può. O almeno provarci.