Arriva la Trilogia di Istanbul su Netflix, firmata Özpetek. Il “Regista Romano” (della Roma dell’Est come di quella dell’Ovest), in questi tre cortometraggi fa quello che sa fare meglio: raccogliere delle persone attorno a una tavola e mostrare le sue due città più amate, İstanbul e Roma attraverso i corpi e le emozioni dei suoi personaggi. Come sempre la musica è uno dei protagonisti delle sue storie, anche se a gran parte del mondo i testi sono incomprensibili. La cucina turca e il rakı: un distillato di uva e anice a 45 gradi che accompagna il cibo, la felicità, la miseria. Una volta era la bevanda nazionale turca; ora ha dovuto (anche se non proprio per decreto!) cedere il posto all’Ayran, bevanda analcolica a base di yogurt…
Rakı: protagonista nella vita dei turchi
Özpetek, venuto a presentare i suoi film alla Casa del Cinema di Roma, racconta che alla fine tutte le liti, le celebrazioni, i problemi e le feste finiscono sempre con un: “Beviamoci su un bicchiere di rakı”. E avverte: “L’unico problema è che dopo il secondo bicchiere ci si comincia a dire, chiunque sia abbia davanti: ‘mica male questo’…”. Özpetek aggiunge che uno di questi tre film è molto personale e che lui lo guarda quando ha voglia di piangere… Viste le trame, è probabile che si tratti del terzo e ultimo.
Meze: il film dedicato ai cicchetti
Il primo episodio della tiriologia si chiama Meze: sono i cicchetti della cucina turca, piatti piccoli freddi e caldi, nati per creare una base nello stomaco e poter berci sopra.
Il regista ci fa girare la sua İstanbul attraverso una sposa bellissima che vaga per le strade, passa il Bosforo e “dall’Europa” arriva a casa sua nella parte asiatica per concludere o cominciare un capitolo della sua vita…
Il tavolo che crea Ozpetek assomiglia a quello della poesia di Edip Cansever, grande poeta e grande bevitore di rakı: “Il tavolo”. Il poeta descrive oggetti ed emozioni nel corso della poesia; parla anche della birra versata sul tavolo, ed esclama: “Ma che tavolo!” E così pure la tavolata colma di meze creata da Ozpetek, con partecipanti tutte femminili e con la grande partecipazione della fata turchina di Ozpetek, Serra Yılmaz. Una gioia guardare queste donne nella loro fragilità “resiliente” sullo sfondo di una bellissima Istanbul che cambia colori. Con il tavolo che si svuota e si riempie cambiano anche gli odori immaginati attraverso i colori della città. I Sarma “fatti in casa” anche se in realtà comprati in un alimentari; il Börek fatto al volo come sanno fare le mamme di Istanbul; i Mücver, le frittelle di zucchine che sono tra le cose più gustose e semplici da fare ma che richiedono i trucchi e le sensibilità delle “donne istanbulite” perché vengano alla perfezione; i Topik (fagottini di ceci) un meze dolce e salato della tradizione Armena della città; le olive schiacciate della cultivar Halhalı… Ecco, la citazione particolare di questa cultivar di oliva che viene da Antakya (Antiochia) sembra proprio un omaggio del regista a quella città di grande cultura che dopo l’ultimo terribile terremoto non esiste più. Sorvoliamo, poi, sul fatto che le olive inquadrate a dispetto del loro nome non siano di quella cultivar lì! E questo accredita ancora di più l’omaggio alla cittadina.
Una sfilata di sapori e emozioni che si chiude con una Istanbul color blu Chagall: un azzurro con tanto nero dentro, ma che alla fine è comunque azzurro. A me, da romana (della Roma dell’Est come di quella dell’Ovest), quel colore di una Istanbul dipinta di blu fa pensare all’Italia nella sua mancanza e alla speranza che c’è nella storia anche se con un tocco di nero.
Il secondo film: Music
Il secondo cortometraggio dal titolo Musica è una storia sul perdere e trovare quel che si era perso in mezzo ad altre nuove perdite. Sempre con una tavolata di rakı e con un’accuratissima scelta di omaggi ai ricordi viscerali della tradizione culinaria. In questo episodio il vero “MacGuffin” (il deus ex machina dei film di Hitchcock come il regista lo raccontò sorridendo a Godard) è proprio il pesce. A parere mio – che sono una mangiona istanbulita – il protagonista del tavolo è la Lakerda: tonno o palamita in sale, un meze che più Istanbul non c’è! Tan Morgül, storico e studioso del pesce a tavola, ritiene che il nome venga da Lacerare e che prenda questo nome da una tecnica di taglio dei genovesi. A un certo punto, il protagonista (l’attore è Yiğit Kirazcı) chiede se la Lakerda sia realizzata con “palamut” o con “torik” che sono due misure diverse della palamita: solo un vero istanbuliota cresciuto in una infusione di rakı potrebbe dirne la differenza…
Il terzo corto: Muhabbet
Ultimo episodio, onirico, commuovente con un incipit che non so perché ma fa pensare ad Antonioni. L’attore (Kubilay Aka) corre in una Roma deserta e passo dopo passo finisce nei vicoli di Galata il quartiere Genovese di Istanbul. Con una musica altamente drammatica in una Roma senza corpi, è difficile non pensare a quel filmato realizzato da Ozpetek durante la pandemia, quando eravamo chiusi nelle nostre case e fuori c’era una Roma più bella che mai… Lo chiediamo al regista. Ma no: “Avevo solo voglia di far vedere la città”, riponde lui. E lo fa, e come se lo fa! Pur avendolo visto solo da poche ore, il ricordo del menu dell’ultimo episodio della trilogia, “Muhabbet”, è già svanito. Ma cosa significa Muhabbet? È una parola turca di origine araba, impossibile da tradurre con una parola sola. Vuol dire parlare, chiacchierare ma – come il lemma tavolata – esprime un mondo complesso. Questo è l’episodio preferito dal regista che lo dichiara apertamente. Molto, forte nei sentimenti. Si dice che il vero bevitore di rakı beva un bicchiere con un cece solo: cioè, nella profondità del bere rakı, il cibo che lo accompagna svanisce. Così fa Ozpetek in Muhabbet: non importa cosa mangiano gli attori in scena, ma sappiamo che bevono rakı e che parlano di amore e dei suoi diversi volti e del senso di perdita. Come del resto fanno anche altri gli altri due episodi. Il film finisce a Roma, così come l’inizio racconta il protagonista turco che vive a Roma. Nel finale, però, è mattina: siamo a una tavolata che è una colazione con amici “romani” di diverse origini. È un risveglio: a tavola c’è cappuccino; il rakı è presente con la sua mancanza, come Istanbul.
Poesia della malinconia e della perdita
Un Ozpetek con una “gioiosa melancolia” racconta storie di quello che ci si lascia dietro o meglio di quello che non si riesce a lasciare alle spalle. Una sorta di poesia che passa attraverso il rakı e il cibo e con riferimenti a molti livelli. La trilogia di Istanbul è un glossario della cucina attorno al rakı: una bevanda che tra i suoi mille significati, negli ultimi ha trovato anche quello di essere una forma di resistenza. Fra aumenti delle tasse, penalizzazioni, regole e retropensieri pseudo-religiosi mai ammessi e sapientemente aggirati (i musulmani in Turchia hanno sempre bevuto rakı che è stato anche un modo per aggirare il divieto che invece colpiva più direttamente il vino) e divieti, quella “santa bevanda” non era mai stata così politica e così religiosa. Nei secoli il rakı fu vietato da diversi sultani, è vero, ma una strumentalizzazione così insidiosa (e subdola perché strisciante) non l’ha mai vissuta. Così come non ha mai avuto un ruolo di risposta forte a un senso di oppressione continuo.
Il rakı e il finto “proibizionismo”
In Turchia dal 2013 è vietato promuovere l’alcol “in qualsiasi forma”. Questo divieto così ampio riguarda anche i festival di musica e di cinema che tradizionalmente, da decenni, erano sponsorizzati da produttori di rakı. Un liquore tradizionale e popolare che oggi non solo non si può più vendere online, ma che non può neppure essere descritto sul sito delle stesse aziende che lo producono. In questo clima di “proibizionismo”, il progetto di Ozpetek ha incontrato il più grande produttore di rakı (Yeni rakı), Diegeo, che ha acquistato quella che era una volta la casa di produzione pubblica. In Turchia bere alcol non è assolutamente vietato; non è vietato neanche parlarne o scriverne. Ma non si può promuovere: quindi puoi fare un film dove si beve rakı o vino o altro ma non puoi legarlo a un marchio. E sì, è il caso di dire che sono proprio… cose Turche!
Un nuovo Rakı: Ferzan
In un situazione così complicata, la collaborazione del regista e Yeni Rakı ha un valore significativo. Infatti è talmente importante per Yeni Rakı, tutta questa storia, che è stato creato un nuovo Rakı a nome di Ferzan con una confezione blu Chagall.
Il rakı, una volta era prodotto dallo stato e praticamente era uno solo. Negli ultimi anni Diegeo ha investito soldi ed energia per differenziare il prodotto con selezione delle uve usate o modi di distillazione. Ferzan, il nuovo rakı di Yeni Rakı (che vuol dire nuovo rakı) è realizzato con anice prodotto da donne, non ha zuccheri aggiunti e viene distillato ben tre volte. L’uva di partenza è una sultanina fresca. Il risultato è un aroma di anice molto raffinato e più armonico rispetto a un rakı tradizionale, con un tono dolce che non stanca il palato che ricorda il vitigno di partenza e che con la sua freschezza accompagna tutto il pasto con facilità. Un rakı ruffiano, che ci sta benissimo.
Guardate questi film e bevete questo Rakı. Farete parte della resistenza più gustosa e sublime e finora ancora sconosciuta dei nostri tempi. Loro vietano, aumentano i prezzi fino a farli diventare uno sproposito. Ma noi li paghiamo e beviamo, con più piacere che mai.