Il metodo sembra l’abbiano inventato gli antichi Greci che 2500 anni fa abitavano l’isola di Chio. Alle prese con la produzione di vino, per accelerare il processo di appassimento dell’uva e preservarne gli aromi caratteristici, gli abitanti dell’isola egea avevano brevettato un sistema di nasse per l’immersione marina controllata dei chicchi (prima della fase di macerazione in anfora vinaria), secondo il metodo documentato da Plinio e da altri testi latini. Ma se oggi ci troviamo a parlarne di nuovo, il merito spetta al viticoltore elbano Antonio Arrighi, che nel mare dell’arcipelago toscano ha provato a riprodurre il vino dei greci dell’Isola di Chio. Per farlo si è avvalso del supporto dell’Università di Pisa e del sostegno del professor Attilio Scienza, ordinario di viticoltura all’Università di Milano, che a sua volta ha coinvolto il regista Stefano Muti per documentare l’esperimento con un cortometraggio – Vinum Insulae – prodotto da Cosmomedia.
Decisamente una bella idea, almeno stando all’accoglienza riservata al progetto dal pubblico di Marsiglia, riunito per la rassegna cinematografica Oenovideo, che ogni anno proietta film, documentari e corti dedicati alla cultura del vino. In occasione dell’edizione 2019, il corto elbano ha ottenuto due premi importanti, che saranno consegnati il prossimo 14 ottobre a Parigi: Miglior cortometraggio per la qualità tecnico-artistica dell’opera; premio speciale della Revue des Oenologues, per l’originalità del tema e il valore della sperimentazione documentata. Proprio sull’ultimo punto si concentra il professor Scienza per sottolineare il significato dell’esperienza: “Un esempio di archeologia sperimentale che ci consente di ritornare alle origini, di capire perché questo vino è più famoso degli altri e di dare così risposte a molti interrogativi rimasti inevasi”.
Ma dunque, cos’è successo, esattamente, sui fondali dell’Elba? L’esperimento è stato condotto nel 2018 (ma sarà ripetuto quest’anno, apportando le modifiche necessarie a perfezionare il metodo), contando sull’esperienza pregressa di Antonio Arrighi, già avvezzo alla produzione di vino in anfora, e sulla resistenza dell’Ansonica, vitigno da tempo coltivato all’Elba, ma originario proprio di Chio (è frutto di un incrocio tra due antichi vitigni dell’isola greca). In occasione della manifestazione ElbAleatico, il professor Scienza ha illustrato al viticoltore elbano la tecnica dell’uva in immersione, che prevede di tenere l’uva in mare per alcuni giorni, all’interno di ceste in vimini – nasse artigianali e rare da reperire, ma prodotte ancora dai pescatori di Castelsardo, in Sardegna – che permettono all’acqua marina di lavorare sugli acini, eliminando in modo naturale la sostanza cerosa (pruina) che li protegge. Proprio questo passaggio consente di accelerare il processo di disidratazione dell’uva, portandola a perfetta maturazione. Segue l’appassimento sulle cannucce esposte al sole, prima di procedere alla macerazione in anfore di terracotta.
Nella pratica, l’uva raccolta a metà settembre 2018 è stata immersa all’interno delle nasse posizionate a una profondità di 7 metri, in mare aperto, ma vicino alla costa di Porto Azzurro. I sub hanno sistemato le nasse per evitare oscillazioni deleterie; ogni mattina, per tutto il periodo dell’immersione, una campionatura ha garantito il controllo costante dei progressi. E così è stato possibile rilevare gli effetti secondari dell’acqua marina sugli acini: il sale, unico antiossidante naturale impiegato nella produzione dei vino, attacca l’acino, che si difende producendo una patina poi destinata a sparire in fase di appassimento al sole. L’uva è rimasta nelle nasse per 5 giorni, tempo sufficiente a incamerare una quantità di sale sufficiente per evitare l’utilizzo di solfiti in produzione.
A marzo, dopo la macerazione in anfora, il primo assaggio ha regalato l’emozione di degustare un vino fatto proprio alla maniera degli antichi Greci dell’isola di Chio, non ancora adatto a essere commercializzato, nonostante le numerose richieste giunte al produttore. Ma con la prossima vendemmia, il perfezionamento del metodo potrebbe assicurare risultati incoraggianti. L’esperimento continua, e chissà che non porti a identificare un “nuovo” antichissimo vino dell’isola.
a cura di Livia Montagnoli
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