Ogni mattina un torrefattore si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di un giornalista per schivare luoghi comuni e falsi miti che ruotano attorno al mondo del caffè. Ora, se lo specialty in Italia ancora arranca nel suo percorso d’affermazione la colpa non è (solo) dei media, ma chi si occupa di comunicazione svolge – o almeno avrebbe dovuto farlo – un ruolo fondamentale nel settore.
Il linguaggio è l’arma più potente che ci sia per cambiare le cose, basti pensare al modo in cui ci ostiniamo a chiamare la bevanda, caffè, senza fare lo sforzo di usare il suo vero nome, espresso. O filtro, a seconda dei casi. Se è vero che il giornale è la preghiera del mattino, allora l’espresso è il sacramento degli italiani. E il più delle volte la lettura del quotidiano avviene proprio sorseggiando una buona tazzina, rituale di tanti mattinieri che concentrano le energie nelle prime ore della giornata. Allora sarebbe auspicabile che le parole si accordassero bene ai profumi sprigionati dalla moka che borbotta: niente più dicerie e frasi fatte, storytelling pre-impostato sul barista- amico-confidente e il bar inteso come luogo di ritrovo per quei quattro amici che volevano cambiare il mondo. Ma un’informazione corretta, sana, efficace, dritta al punto.
Immagine di Oak Bond Coffee su Unsplash. In apertura, foto di Tyler Nix/Unsplash
Non abbiamo bisogno di leggere, ancora, quale sia il giusto ordine tra acqua, espresso e cioccolatino (quest’ultimo, poi, è un vezzo d’altri tempi, tutt’altro che logico se paniamo di chicchi di qualità), tanto meno un elogio a quelle realtà che, anziché lavorare per garantire un prodotto migliore da vendere a un prezzo equo, giocano al ribasso ponendosi come moderni eroi anti-inflazione. Di specialty nell’ultimo decennio si è scritto sempre di più, ma la cosiddetta “terza ondata” di caffè – cominciata nei primi anni 2000 – è arrivata e ormai finita da molto, soprattutto all’estero. Dov’era prima la stampa quando in America, Germania e Austria si parlava di V60, monorigine e cold brew? Inutile negarlo, il mondo dei bar ha meno appeal di quello dell’alta ristorazione, per non parlare del confronto impari con il vino, che continua a essere il più seducente dei prodotti, con più effetti speciali e grandi scenografie. Chi vorrebbe ascoltare una persona che parla di tostatura chiara quando può sentire l’ennesimo sommelier sciorinare aneddoti su quella volta che è andato a vendemmiare in Champagne? Da più di vent’anni, comunque, nel buio italiano c’è un faro per gli appassionati di oro nero, la rubrica su Bargiornale a firma di Nadia Rossi, giornalista che ha assistito e contribuito allo sviluppo di quella che ormai non è più una nicchia (almeno in parte, ma questa è un’altra storia). E dal 2015 ci siamo anche noi.
Foto di Jakub Dziubak su Unsplash
Noi che, come tutti, abbiamo commesso degli errori, tra tutti quello di accantonare l’argomento per un po’, credendo che non ci fosse più nulla di interessante da dire. Ma fin quando su TikTok continueranno a spopolare trend privi di logica come l’aggiunta di sale alla tazzina, fin tanto che i quotidiani si ostineranno a propinare ogni due anni il caro vecchio studio “Se bevi caffè amaro, sei uno psicopatico”, allora parlare di prezzo dell’espresso, di lavoro in piantagione, di procedure corrette per un espresso ad hoc, avrà ancora un senso.
Foss’anche solo per restituire al caffè quel sex appeal che, in fondo, ha sempre avuto: cosa c’è di più accattivante di un prodotto di cui, giorno dopo giorno, non ci si annoia mai?
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