Bisognerebbe dirlo a Marta, che il salario minimo non serve. Marta (ma potrebbe chiamarsi Pasquale, Karim, Natasha) è una qualunque delle decine di migliaia di addetti alla ristorazione in Italia. Anche a lei oggi è toccato leggere due notizie che la riguardano da vicino. La prima: il commissario al Lavoro dell’Unione europea Nicolas Schmit che viene sentito a Roma e spiega che “l’Italia ha una parte enorme della sua economia dove i salari sono troppo bassi, una situazione non sana che va affrontata”.
Schmit spiega che “la contrattazione collettiva per molti settori non funziona”, e va un paragone impietoso con la Spagna, un paese più povero che però garantisce salari minimi recentemente aumentati. Seconda notizia: la discussione in Parlamento della legge sul salario minimo, poi approvata, che finisce in bagarre, dopo faticosi tentativi di accordo tra maggioranze e opposizione.
Risultato, dal punto di vista di Marta: il suo lavoro in una catena di pizzerie continuerà a essere pagato otto euro lordi all’ora. E Marta è fortunata: è assunta in regola, a sua catena applica il contratto nazionale con i livelli più alti, e lei è inquadrata al sesto livello. Nella sua stessa pizzeria c’è una apprendista che ogni ora porta a casa poco più di sei euro. Tutto legittimo, tutto regolare. Come l’orario spezzato, come il part time orizzontale e verticale.
Marta sa che tra gli argomenti usati per ostacolare la legge sul salario minimo il più ricorrente è: così si toglie spazio alla contrattazione collettiva. Ma sa anche che da sempre la contrattazione collettiva è affidata ai rapporti di forza. E un ristorante non è una fabbrica, non ha delegati sindacali, non scende in sciopero. Quando si siedono al tavolo delle trattative, i sindacalisti del settore sono a mani nude. Così anche i più seri firmano quei contratti da sei euro lordi all’ora. Certo, poi se si va a guardare davvero la Spagna, il paese citato da Schmit, si scopre che il salario minimo è più basso non solo dello stipendio di Marta ma anche di quello dell’apprendista che lavora accanto a lei. Però, pensa Marta, decidere per legge che sotto una certa soglia di salario ci va di mezzo anche la dignità delle persone forse non sarebbe sbagliato. Come darle torto?
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