Foto non ce ne sono, ma il rumore della carta stagnola ancora cigola nelle orecchie e il profumo riecheggia tra i nasi ormai adulti. Il foglio di alluminio faceva troppo rumore, mannaggia, con mano fermissima dovevano alzarlo cercando di non destare attenzione, scoprendo delicatamente la teglia per poi infilare due dita all’interno. Iniziavano dagli angoli e tiravano su quello che capitava. Soprattutto patate arrostite alla perfezione, croccanti, unte, morbide all’interno, un taglio a mezzaluna dalla precisione giapponese, pezzi generosi di rosmarino, il grasso della carne che colava con eleganza dentro teglie iconiche che dopo quarant’anni ancora prestano servizio. Lo facevano tutti, la mamma, la nonna, le nipoti, lo zio, pescavano quello che capitava. Patate ma anche pezzetti di pollo ruspante dalla pelle ruvida. Rubavano e masticavano, masticavano e rubavano. A chi indugiava, e quindi si faceva scoprire, veniva rifilato uno schiaffetto sull’arto lesto. «Te cascasse na mano», rimproverava il burbero cuoco che non ha mai condiviso la ricetta iconica.
Tutte le santissime domeniche a pranzo, per anni, almeno dieci, forse più di venti, al terzo piano della palazzina verde carciofo di periferia, la famiglia ha mangiato pollo arrosto con le patate. Patate col pollo arrosto. Cotto nel forno a legna dentro le teglie che ancora prestano servizio. Il grasso che trasudava faceva da ricamo alle patate tagliate con precisione giapponese. Un metodo contadino irreplicabile per cui la famiglia della palazzina verde di periferia piange ancora lacrime di nostalgia. Il forno si trovata in campagna, nel casolare dove una volta vigevano le regole della mezzadria. Lì il bisnonno Pietro coltivava e allevava, accudiva e osservava, uccideva e mangiava, così come uno dei suoi dieci figli rimasti a guardia delle mura rosse. Alibrando, l’ultimo di una discendenza di zappaterra, bazzicava tutti i giorni per aiutare il fratello rimasto a vivere nella vecchia casa di campagna. Sulla carta d’identità della vita c’erano scritte poche e semplici cose: fumatore incallito, muratore e contadino, cuoco d’antan di un pollo arrosto con patate straordinario.
Il forno era nascosto tra la stalla e la cantina dove stagionavano i salumi. A quasi nessuno era permesso entrare, il cuoco arrivava di buon mattino col pollo ruspante spennato a dovere, le patate ricavate dalla terra con le manone ruvide già tagliate e le teglie in servizio per quarant’anni. Il fuoco consumava i ciocchi di legno, la carne trasudava, le patate sfrigolavano e ogni domenica la famiglia del terzo piano della palazzina verde di periferia portava a termine quel rito. Rubava e mangiava, mangiava e rideva. Anni e anni di quel pollo arrosto cotto nel forno a legna. In qualche occasione, alcuni hanno avanzato lamentele o battute per l’ennesima santissima domenica in cui le mani erano intrise di pollo arrosto, oggi solo a ricordare quelle lagne il pianto si trasforma in disperazione inconsolabile.
Il pollo non era quello di oggi. Era quello di ieri. Duro, durissimo, al terzo piano della palazzina verde di periferia la famiglia lo mangiava strappandolo con i denti, da sinistra a destra, agganciando coscia e ali con i molari e tirando forte. Il petto era cemento ingentilito dal grasso di cottura, il sapore ruvido lo faceva piacere a tutti i commensali. Masticavano e bevevano per deglutire, bevevano per deglutire mentre masticavano con tutti i denti che avevano a disposizione. Era tosto, era saporito, era una battaglia a tavola quel pollo con le patate straordinario cotto nel forno a legna del casolare di campagna. Alla fine del pranzo le unghie erano nere, le mani sbisunte, le camicie di flanella lerce, le bocche imbellettate di rossetto arrosto, le patate un ricordo, sempre troppo poche per quanto erano buone. Erano felici.
«Grazie per il pollo», dicevo a nonno Alibrando, quando, ormai anziano, replicava quel rito diventato quasi un ricordo lontano. Il vecchio casolare di campagna era andato perduto e con lui il forno a legna che tante gioie aveva regalato. Il pollo era finito nel forno casalingo, il pranzo della domenica interrotto dalla famiglia della palazzina verde di periferia ormai divisa dalla vita. «Ogni promessa è debito», mi diceva il nonno-cuoco al termine di un pranzo. «Le promesse si mantengono, fino a quando posso, quando non potrò più, t’arrengerai!». Non è rimasto molto, solo la nostalgia, e il ricordo vivido senza foto di quel pollo arrosto con le patate cotto a legna nel casolare di campagna che la famiglia del terzo piano della palazzina verde carciofo di periferia considera ancora straordinario.
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