Cento per cento italiano. Se dovessimo dire cosa ci è rimasto in mente (insieme alle bandiere gialle disseminate per tutta la città), della tre giorni romana del Villaggio Coldiretti, senz’altro è lo slogan “100% italiano” onnipresente: tra gli stand, nelle brochure, nei menu (letteralmente “pasto completo a base di prodotti 100% italiani”). Italia, italiani, made in Italy e affini sono state senz’altro le parole più pronunciate all’interno del Circo Massimo al mercato targato Coldiretti (13-15 ottobre). Nulla di male, ci mancherebbe, ma quando un concetto diventa così preponderante nel racconto di un evento da restare in mente più dell’evento stesso, diviene difficile non scambiarlo per ideologia. Allora ci chiediamo: abbiamo davvero bisogno di tutta questa ostentazione di italianità?
Lo spieghiamo meglio. Se vai al mercato Coldiretti non ti aspetti di certo di mangiare bao buns o udon e soba, però sentirsi dire – da uno, due, tre addetti ai punti ristoro – che il caffè bisogna andarlo a prendere fuori dal Villaggio (i bar della zona ovviamente ringraziano) perché “in Italia non ci sono piantagioni di caffè”, apre quanto meno ad una riflessione. Inutile puntualizzare che da qualche anno anche il Belpaese (proviamo ad usare un sinonimo di Italia, altrimenti rischieremmo di superare il limite di ripetizioni consentite!) ha le sue piantagioni di caffè, precisamente in Sicilia. Piuttosto, ci preme far notare che viviamo in uno dei Paesi dove la tazzina di caffè è parte integrante della cultura alimentare, un Paese che ha delle validissime torrefazioni su tutto il territorio nazionale, un Paese che ha anche creato il suo modo “italiano” (rieccolo!) di preparare il caffè. Possiamo anche giocare a chiuderci in un villaggio ideale, con dei confini ben evidenziati dalle scritte “100% italiano” (“non passa lo straniero”, neanche il caffè!) in cui l’autosufficienza è possibile, ma ne vale davvero la pena?
Non ne facciamo una questione politica, sia chiaro. Sebbene la politica non sia di certo mancata all’appuntamento capitolino di Codiretti, con tanto di standing ovation al Ministro che ha riportato la Sovranità alimentare nel nome del suo dicastero (in particolare, l’applauso è scattato quando Lollobrigida ha annunciato che presto la legge contro il cibo sintetico sarà definitivamente approvata). Piuttosto, ci chiediamo se mettere l’italianità sempre e comunque sopra ogni cosa non finisca per svuotare di senso quello stesso valore che si tenta di difendere. E qui ritiriamo fuori un argomento trito e ritrito quando si parla di autarchia alimentare, ma che forse vale la pena di richiamare alla memoria di tanto in tanto: se in passato avessimo lasciato fuori dal “nostro villaggio” pomodori, patate, mais, solo perché non di origini italiane, oggi forse ci saremmo persi parte della migliore cucina nazionale e molti degli stand Coldiretti del Circo Massimo sarebbero rimasti vuoti. Dai gustosissimi baby kiwi del Trentino ai succosi fichidindia dell’Etna. E sarebbe stato un vero peccato.
Quindi possiamo anche fingere che un menu senza espresso finale sia possibile, ma se poi abbiamo bisogno di correre fuori dal “villaggio” fino al bar più vicino per soddisfare un bisogno rimasto inappagato, allora forse stiamo solo palesando che l’autarchia fine a sé stessa è in fondo un concetto un po’ sconfortante.
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