In un periodo storico in cui molte realtà dell’agroalimentare italiano puntano a fare programmazioni di investimenti con una visione a breve-medio termine, osservare una storica azienda che approccia un percorso che guarda ai prossimi 10 anni è sicuramente una notizia di cui tener conto. Ancor di più lo è se dietro a questo impegno di risorse ci sono i nobili intenti della sostenibilità ambientale unita all’aumento di produzione di extravergine italiano. Come possono andare a braccetto questi aspetti? A spiegarcelo è stato Zefferino Monini durante la conferenza stampa della presentazione del “Piano di Sostenibilità 2020-2030”.
Il piano, che prevede un approccio a 360 gradi che parte dalla coltura per arrivare fino all’educazione alimentare, è un progetto delineato insieme a The European House-Ambrosetti in occasione del Centenario dell’azienda umbra, nata nel 1920 per volontà del nonno degli attuali proprietari, i fratelli Zefferino e Maria Flora Monini. Parliamo di un percorso partito in era pre Covid 19 e che già vede 10 milioni di euro investiti su un totale di 25 in programmazione entro il 2030. Si va dalla messa a dimora di circa un milione di cespugli di ulivi in sesti d’impianto super-intensivi, in regime biologico o di agricoltura integrata (che dovrebbero catturare circa 50 mila tonnellate di anidride carbonica) fino all’attenzione per il packaging e all’educazione alimentare verso i bambini. Solo per quanto riguarda la parte agricola la quota di investimenti è di 20 milioni di euro (10 già in campo con un’attenzione particolare all’Umbria, e altri 10 da utilizzare nei prossimi anni nel resto d’Italia) e la produzione di olio verrebbe certificata dal CEQ – Consorzio Extravergine di Qualità (del quale Monini è socio fondatore insieme a Pantaleo) nel quale, come rivelato in anteprima da Zefferino Monini, recentemente è entrata anche Federolio.
In sostanza il piano decennale si sviluppa su queste linee guida:
integrata o biologica, con sistemi di irrigazione di precisione.
In occasione della conferenza stampa di presentazione del progetto, il 26 maggio scorso, abbiamo rivolto a Zefferino Monini alcune domande.
Il discorso sulla qualità passerà anche attraverso un aumento dei volumi di produzione per il Granfruttato, per il Bios e per la linea dei monovarietali?
I nostri prodotti di maggior valore sono stati apprezzati più sui mercati esteri, a cominciare dalla linea dai monovarietali che hanno vinto molti concorsi internazionali come quello di Los Angeles. Purtroppo in Italia non abbiamo venduto neanche una bottiglia alla GDO, anzi addirittura abbiamo visto uscire da Esselunga anche il Bios, che produciamo nella nostra sede nel Gargano, a favore di oli più commerciali. Il sentimento che nutriamo per il mercato interno a livello distributivo si sta affievolendo. Con una nuova revisione merceologica (creare una nuova categoria oltre l’extravergine ndr) si potrebbe ricreare nuovo entusiasmo per ripensarci sulla distribuzione italiana.
Molti studi ci dicono che gli oliveti super-intensivi non siano così ecosostenibili, né convenienti sul fronte del profitto. Molti produttori che hanno scelto questi impianti dopo circa 25 anni sono stati costretti a togliere tutto. Inoltre gli impianti super-intensivi implicano anche la grande difficoltà nell’attuare un’agricoltura biologica o a basso uso di pesticidi. Come pensate di intervenire in questo senso? Quali varietà si pianterebbero e in quali zone? Anche il Bios prevedrebbe l’uso di olive da impianti super-intensivi?
C’è stata un’evoluzione nella coltivazione super-intensiva e molto dobbiamo anche a chi in Italia ha sperimentato varietà nostrane: prima c’erano solo le cultivar spagnole. Oggi posso dire con serenità che si possono mettere a terra con questo sesto d’impianto varietà che ci identificano bene a livello di gusto. Alcune di queste cultivar in futuro saranno comprese all’interno dei disciplinari di Dop e Igp, in Toscana e Umbria per esempio. Per quanto riguarda l’aspetto economico il vantaggio del super-intensivo è che chi investe ha un ritorno economico molto veloce perché questi campi vanno in produzione in 3 anni contro i 7-8 di quelli convenzionali. Non è vero che hanno una durata di 25 anni in quanto ancora non li ha tolti nessuno e comunque chi li ha piantati nel bacino del Mediterraneo si trova molto bene anche con impianti di 20 anni. Dal punto di vista agronomico è vero che la vicinanza delle piante metterebbe a rischio l’impianto per quanto riguarda alcuni patogeni, per questo ci vuole molta attenzione. Oggi il nostro nuovo impianto, messo a dimora l’anno scorso, in Umbria lo stiamo curando in biologico e sembra stia crescendo bene.
a cura di Indra Galbo
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