Alla fine si tratta sempre di quale prospettiva vogliamo utilizzare per analizzare un fenomeno. Che le “verità” siano spesso (direi quasi sempre) relative e soprattutto che non possano mai avere la V maiuscola ormai dovremmo averlo interiorizzato tutti. Lo spero, almeno, anche se si fa fatica a crederlo! In particolare, è interessante vedere come la diatriba sul “naturale” – parlando del “nostro” mondo – stia uscendo dai confini enoici e si stia proiettando anche con manifestazioni di accanimento non giustificato in altri ambiti. Come, per esempio, il gelato.
Amatissimo da tutti, il gelato ha vissuto fortune altalenanti: da grande lusso goloso aristocratico (prima che venissero inventati i frigoriferi elettrici) alla “democrazia industriale” che ha aperto a tutti il piacere del gusto, questo golosissimo dolce – che ha avuto in Italia una importante culla culturale e una grossa spinta produttiva e commerciale – è passato dall’essere “troppo” pop ad assurgere negli ultimi tempi a ultimo avamposto della creatività artigianale e dell’avanguardia gastrosofica nostrana. Della serie: se fino a qualche anno fa il Cornetto o i Chokoball erano il gusto dell’estate che dividevano i fan, oggi diverse fazioni di gelaterie contrapposte si sfidano su chi sia il vero depositario della naturalità.
Ovvero: se sia più naturale chi usa macchine degli anni ’60 e non aggiunga nulla (chissà poi cosa significhi!) evitando la (prima osannata e ormai vituperata) farina di carrube o se invece sia più naturale chi punti a utilizzare la moderna tecnologia per esaltare gusti e proprietà delle materie prime. E tra di loro le due fazioni se le dicono davvero di tutti i colori. C’è anche chi si spinge a sbeffeggiare chi scrive e si occupa di questo mondo oggi in sempre maggior fermento (evviva, era ora!) e che però magari non vuole fare il tifo per una fazione o per l’altra. Come se qualcuno chiedesse a noi del Gambero se tifiamo per il “gourmet” o per la “trattoria”, ammesso che ancora abbiano senso queste definizioni: noi non tifiamo, noi raccontiamo. La stessa cosa vale per i vini: non è dirimente il chiamarsi o meno naturale, ma essere o meno bevibili. E come dicono molti produttori (naturali): dirimente è che non puzzino, non come si chiamino.
E il buono (oltre al giusto) non sta sempre da una parte soltanto: è bello poter raccontare il mondo nelle sue diverse sfaccettature, interpretarne le diverse prospettive, proporre le diverse pieghe e sfumature che il gusto e il piacere possono regalarci. Per capirci, perché dovremmo schierarci con il gelato di Stefano Ferrara a Roma o con Sablé di Alessandro Cesari a Bologna? Ci piace continuare a goderceli entrambi, i loro coni. Senza dover schierarci con la “naturalità” dell’uno o dell’altro. Come per il fenomeno del vino naturale, c’è chi chiede disciplinari e parametri di giudizio da parte dei “critici” per poi rifiutare ogni disciplinare e ogni paletto che definisca cosa significa “naturale”. A volte, però, è appunto questione di prospettive: c’è chi guarda al futuro e chi guarda al passato. Magari facendo entrambi cose buone.
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