Un tempo appannaggio delle grandi città, le food hall stanno sempre di più invadendo le province e, soprattutto, le periferie. Non più un lusso esclusivo delle metropoli – al contrario delle food court, agglomerati di catene e fast food, le hall radunano perlopiù artigiani del territorio – ma un punto d’aggregazione che diventa soprattutto centro della vita di quartiere. Anche negli angoli considerati più remoti.
Sta accadendo negli Stati Uniti, ma con buone probabilità – e con il dovuto, consueto ritardo – il fenomeno si verificherà anche qui nei prossimi anni. Negli Stati Uniti è già realtà ed entro la fine dell’anno sono previste 484 food hall su tutto il territorio, con l’apertura di 120 nuovi spazi che andranno ad aggiungersi ai 364 già esistenti. Una crescita senza freni, considerando che un decennio fa erano soltanto 35 e quasi tutte a New York, dove erano prese d’assalto da turisti e lavoratori.
Reno Public Market, Nevada
A proposito di lavoratori: è proprio a loro, e soprattutto allo stop forzato dovuto alla pandemia, che si deve questo sviluppo repentino. Le nuove forme ibride di smart working hanno portato sempre più persone a cercare dei luoghi dove potersi fermare ore al computer senza essere d’intralcio. Ancora meglio, poi, se a portata di mano c’è un’ottima caffetteria, un panificio d’autore o uno street food da leccarsi i baffi, senza dimenticare opzioni vegane e piatti salutari per non appesantirsi prima di rimettersi di fronte al monitor.
Sono tutte diverse a seconda della zona, della clientela locale e degli artigiani che decidono di intraprendere questa avventura, eppure si somigliano un po’ tutte. Le food hall sono spazi grandi, con tavoli sociali da condividere, prese per i dispositivi elettronici sparse un po’ ovunque, e cibo di diverse culture, dai classici hot dog stellestrisce a piatti tipici dell’Africa occidentale, ai mercati di cibo da strada all’aperto di ispirazione asiatica. I professionisti del settore arruolati per le hall sono tutti della zona, non esistono catene e grandi marchi, e anche il design è molto più curato rispetto alle food court che di solito monopolizzano centri commerciali e stazioni metropolitane.
New York è il regno delle hall ma ormai questi format sono approdati ovunque. A Omaha, per esempio, cittadina del Nebraska, dove la cucina nepalese e quella siriana dominano la scena, oppure a Grapevine, Texas, la città famosa per i suoi vigneti che ora conta uno spazio dal design particolare che ricorda le stazioni ferroviarie, dove trovare arepas – i golosi paninetti condivisi da Venezuela e Colombia – e brisket texano, piatti di mare e hummus. In Nevada c’è The Reno Public Market con churros e crepes, a Selma, nella Carolina del Nord, si trova il meglio della tradizione indiana e peruviana.
Secondo la Cushman & Wakefield, leader mondiali di servizi immobiliari che di food hall si occupa da anni, questi format hanno saputo resistere meglio ai tanti cambiamenti dettati dal lockdown, anzi ne hanno giovato. Il grande flusso di lavoratori che hanno scelto di abbandonare le grandi città, in favore della periferia o delle cittadine più piccole, ha fatto aumentare la domanda di questi punti ristoro. Che convincono grazie all’offerta variegata, ma soprattutto all’atmosfera informale e conviviale, che consente a chiunque di concentrarsi sul proprio lavoro ma anche scambiare qualche chiacchiera con il vicino, e magari creare nuovi legami. Del resto, un’altra conseguenza del Covid è proprio questo bisogno di connessioni, che in mercati simili viene soddisfatto quotidianamente.
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