Grembiule rosso, frangia a trapezio e sorriso smagliante. Sono i tratti distintivi di Cooker Girl, al secolo Aurora Cavallo, uno dei personaggi più famosi del web. Una food creator piemontese, inserita dalla rivista Forbes tra gli under 30 più influenti sui social e che ogni giorno conquista followers a raffica con le proprie ricette di cucina. Oggi, la sua popolarità è divenuta tale da avere un seguito di oltre 1 milione di persone e venire ospitata in programmi televisivi di punta.
foto di Simona Giardullo
Il progetto di Cooker Girl mi è esploso in mano. Che poi, in inglese, Cooker Girl non ha nemmeno senso. Gossip Girl era la mia serie preferita e ho scelto così il soprannome senza pensarci troppo. Come la stessa, non volevo rivelare la mia identità. Soprattutto in un paese piccolo della provincia piemontese dove si è più condizionati dal giudizio altrui. Infatti, all’inizio, il mio volto non compariva. Solo il grembiule rosso che tuttora mi identifica. Ad un certo punto però, per errore, ho collegato il mio account di Facebook alle altre piattaforme social. A molti è arrivata la notifica “Aurora Cavallo è su Instagram con il nome di Cooker Girl”. Lo sbaglio più fortunato della mia vita.
Nel 2019, su consiglio di un amico, decido di postare un video su TikTok, piattaforma che all’epoca era appena sbarcata in Italia. Il contenuto è diventato virale e in seguito Giallo Zafferano ha voluto avviare una collaborazione. Se poi per lavoro si intende ciò che rende economicamente indipendenti, solo a partire dal 2021, dopo due anni di costanza e abnegazione sui social, ho iniziato a “guadagnare”.
La narrazione delle nonne che fanno le tagliatelle la domenica non è stata il mio caso: le mie non amano cucinare. Io invece sono una grande mangiona, ma ho dovuto fare i conti con il fatto che i miei genitori tornavano tardi a casa dal lavoro e non riuscivano a preparare granché. Quindi, a 14 anni, ho incominciato a cucinare. Soprattutto perché volevo mangiare qualcosa di più gustoso di un minestrone riscaldato al microonde. Da lì a poco mi sono innamorata della cucina. Anche se si romanza molto sulle tradizioni culinarie familiari, in realtà è pieno di gente che ha iniziato a cimentarsi per necessità e che si è appassionata solo in seguito al mondo food.
Non vengo dall’alberghiero. Ho fatto il linguistico. Con la scusa del francese, ho sfruttato l’alternanza scuola-lavoro per andarmene a lavorare nella cucina di un paesino minuscolo della Normandia. Di lì, ogni estate, ho provato a fare delle esperienze nella ristorazione. Ma le più significative son state le ultime: a Copenaghen, presso la panetteria più grande della città, Andersen & Maillard; a New York, nel ristorante stellato One White Street, una “life changing experience”.
Le critiche possono venire sempre, anche dalle ricette più semplici. Alla fine ciò che mi sembra conti di più è quello che si riesce a trasmettere: la passione, le sensazioni che suscita una preparazione. Il fatto che un piatto sembri perfetto è solo un plus. Anche perché di fatto la bontà della cucina non può essere verificata. Nella mia community hanno meno successo i piatti elaborati. Propongo una cucina “casalinga”. Probabilmente neanche Cracco, quando sta a casa, si metterebbe a fare le uova come al ristorante.
Polemica fuori dal mondo. Sembra che con la cittadinanza italiana venga riconosciuta anche una laurea in scienze gastronomiche e il diritto di giudicare. Sfido chiunque a dire che non ha mai comprato la pasta sfoglia già pronta. Chi è che si mette lì tutte le volte a fare la laminazione dell’impasto, con le varie pieghe? Alcuni non sanno neanche cosa siano. E se Benedetta Rossi ha quel seguito è perché rappresenta la “maggioranza” degli italiani. Oltre al fatto che non tutti hanno la possibilità economica di comprare la qualità. È troppo facile dire che l’acquisto è una scelta. Per molte persone, mettere nel carrello ingredienti a basso costo è una necessità.
foto di Simona Giardullo
In ogni mestiere c’è stata un’evoluzione che ha sdoganato alcune tematiche. Nella ristorazione questa transizione è lenta; oggi si parla ancora dell’alta cucina come di una caserma che richiede oltre 18 ore di lavoro al giorno. Ma fare il cuoco non dovrebbe essere eroico. Si tende a giustificare il sacrificio disumano che comporta il lavoro con la retorica della passione. Come se fosse giusto rinunciare al resto solo perché si ama il proprio mestiere. Il fatto che piaccia non significa che la fatica pesi meno. Riguardo la cucina tradizionale, voglio dire che il patrimonio gastronomico italiano è motivo di orgoglio e va promosso. Talvolta però questa consapevolezza può diventare arroganza e spingere a ritenere tutto ciò che non è “nostro” non buono o da migliorare. Che poi, alla fine, cosa è veramente autentico (italiano)? Nemmeno la tanto decantata pasta al pomodoro. La pianta è americana. La pasta secca araba. E le acciughe al verde della tradizione piemontese? Mi potete dire in Piemonte dove sta il mare? Per fortuna, la cucina è frutto di contaminazioni. Ogni tanto ce lo dimentichiamo e la ‘purifichiamo’.
Da ciò che desidero cucinare. Anche se le tengo fortemente in considerazione, non mi baso solo su tendenze o potenzialità virali di un contenuto. Sono scelte editoriali. Dall’esterno sembra che faccia solo video. Non è così (dietro c’è un piano editoriale) …
Per fortuna o sfortuna, la reputazione si basa sui numeri. Per il brand, il tuo valore dipende dal percepito e dalla fanbase. È stressante che il lavoro venga valutato in virtù di variabili (aleatorie) su cui tu non puoi incidere. Per cause sconosciute, un video può andare male sebbene tu ci abbia messo 3 giorni per costruirlo, mentre un altro, con poche ore di produzione, benissimo, diventando addirittura virale. Il bello e il brutto dei social. Perciò, non bisogna mai scoraggiarsi. La costanza è l’unica variabile che alla fine premia veramente.
Non ho molto da dire. Nel senso che per me non è un tema. Se il contenuto è sponsorizzato, va indicato: siamo obbligati per legge ad inserire (la dicitura) “adv” (advertising). Quindi, se non si fa, si commette un illecito. Esattamente come il commerciante che non emette lo scontrino.
Le sponsorizzate si basano su una conoscenza personale del brand. Non sono fatte superficialmente. Per dire, non collaboro per scelta etica con aziende di carne. Non sono né vegana né vegetariana. Ma un conto è sponsorizzare la carne, un conto è mangiarla nella propria quotidianità. Ci sono dati che dimostrano come non faccia bene alla salute e che la sua produzione arreca danni all’ambiente. Nel mio piccolo provo a tenere conto di alcuni aspetti, considerati i miei studi (scienze gastronomiche). Poi magari faccio altre mille scelte sbagliate.
Non tutti i giorni. Ma rientrano nella mia “quotidianità”. Cosa che vale per tutti i prodotti risultato delle mie sponsorizzazioni. [per replicare alla provocazione ha tirato fuori dal frigo con soddisfazione lo yogurt dell’azienda sponsorizzata]
foto di Simona Giardullo
Rifletto molto prima di fare qualsiasi cosa. Talvolta mi chiedo se sia opportuno esprimere la mia posizione. La verità è che ho paura di sbagliare. Sono consapevole di avere davanti tante personalità differenti, magari suscettibili rispetto ad alcuni temi, che potrebbero interpretare i miei contenuti in un modo diverso da quello da me inteso. Nonostante ciò, non è detto che non provi a sensibilizzare il pubblico su alcune questioni.
Ogni esperienza è differente. Ma che le cucine siano ambienti maschili è dimostrato dai fatti. Come è evidente che nella società c’è disparità di genere. Quindi analizzare il problema solo rispetto al mondo della cucina, quando si può riscontrare in ogni gerarchia aziendale, è un po’ naif.
Storie di cucina raccoglie conclusioni, esperienze e gusti esplorati. Dalle avventure professionali ai fornelli di casa. Volevo costruire un ponte fra due mondi, quello di Aurora cuoca, passata per le cucine di Copenaghen e New York, e quello di Cooker Girl, che si rivolge a un pubblico di semplici appassionati, ma anche a chi muove i primi passi in cucina.
Inizialmente, fare una cosa che piace a più persone può portare dei risultati; ma, alla lunga, si perde. Così, il libro non segue la logica della ricetta più famosa o potenzialmente virale. Sinceramente, ho inserito solo le preparazioni che amo. Senza pormi più di tanto il problema se potessero piacere o meno. Altrimenti Storie di cucina non avrebbe avuto senso. Il progetto è frutto anche di un’esperienza: la mia estate newyorkese. Contesto urbano in cui la cucina cosmopolita è pane quotidiano. Dopo quanto esplorato, e forse anche per inclinazioni generazionali, scrivere un libro solo sul repertorio piemontese sarebbe stato troppo limitante. Poi chissà, fra qualche anno potrei avere il desiderio di tornare alle origini.
foto di Simona Giardullo
La stessa persona empatica. Ma caratterialmente sono totalmente opposta: introversa e pessimista. Il personaggio di Cooker Girl mi ha permesso di superare le insicurezze, di sentirmi brava in qualcosa; al posto giusto. E, anche quando le mie giornate non sono riempite da produzioni video, investo comunque il tempo in cose che riguardino il cibo: cucino per qualcuno o guardo una puntata di Joshua Weissman. La mia è un’ossessione a 360 gradi.
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