Includere la carne in un locale vegano per non far scappare i clienti. È accaduto a Macclesfield, Inghilterra, precisamente al Nomas Gastrobar, caffetteria di cucina vegana con prodotti biologici e locali. O almeno, così era fino a poco tempo fa: il proprietario Adonis Norouznia non riusciva più a capacitarsi dell’assenza di clientela, «abbiamo prezzi migliori e una buona qualità, perché non abbiamo i clienti?». E poi la realizzazione: «Dobbiamo guardare in faccia la realtà, è per il fattore vegano. La maggior parte delle persone non è vegana».
L’annuncio – a malincuore – è arrivato via social lo scorso 22 gennaio. Norouznia ha dichiarato che molti clienti si sono lamentati del prezzo dell’English breakfast dopo aver scoperto che bacon e salsicce erano a base vegetale, tanti altri sono usciti dal locale senza consumare una volta compreso che non c’erano prodotti animali. Così, a partire dalle prossime settimane il Nomas Gastrobar avrà in menu anche salsicce di maiale, uova, burger di manzo, gyros di pollo: il quotidiano Telegraph (di orientamento conservatore) parla di un calo dell’interesse verso la finta carne e più in generale il veganesimo, ma davvero l’offerta vegetale spaventa i clienti al punto da allontanarli? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Intanto, l’insegna in questione si trova in una cittadina del Cheshire, un tempo centro dell’industria della tessitura della seta, lo scorso anno entrata nella classifica della società immobiliare Rightmove dei posti più felici in cui vivere. Merito del senso di comunità, ma anche una fiorente offerta gastronomica, con caffetterie, bistrot e il mercato che l’ultima domenica del mese raduna appassionati da tutte le zone limitrofe. Insomma, una città piccolina ma che il cibo ce l’ha nel sangue: basti pensare che viene chiamata anche Treacletown, la città della melassa, per via dello storico incidente di un carro ribaltato che rovesciò la melassa sui ciottoli. Non una grande città ma neanche un paesino isolato dove vige solo la cucina tradizionale.
Difficile, poi, pensare che le opzioni vegetali possano dividere. Tra intolleranti al lattosio, vegani e persone con allergia alle uova o le proteine del latte, la cucina plant-based è forse quanto di più inclusivo ci sia. «La maggior parte delle persone non è vegana» ha detto il titolare. Vero, ma verdure, legumi e cereali sono – o perlomeno così dovrebbe essere – alla base dell’alimentazione di tutti: molte persone non mangiano carne o formaggi, ma chiunque può consumare un’insalata, delle falafel o un hummus.
Quanto al gusto, le alternative alla carne oggi sono moltissime e nel Regno Unito i brand di surrogati offrono una scelta davvero ampia; in più, nei panini o wrap questi elementi vengono abbinati a salse, verdure, creme… davvero non c’era nulla al bar che riuscisse a convincere la clientela?
Ci sono poi dolci, cocktail, hummus e altre pietanze che nascono già naturalmente vegane. L’ambiente è carino, informale e curato, viene da pensare che – forse – il problema non sia tanto la scelta di servire cibo vegano (ristoranti e caffetterie vegan esistono ormai da anni, sono sempre di più, il format è consolidato) quanto la generale crisi che sta investendo il Regno Unito, a cominciare dai pub.
Il Nomas ha aperto nel 2020, periodo non felice per le attività: un percorso partito in salita che, forse, meritava un altro finale. Vegano convinto, Norouznia continuerà a servire piatti vegetali, ma affiancati dalla carne. Commenti delusi sotto il post non sono mancati: come ha dichiarato alla rivista Confidential, però, il veganesimo è una scelta personale, gli affari sono affari: «Se questi moralisti vogliono il mio iban, sarò ben lieto di fornirglielo, perché io non so più che fare».
Che sia stato un errore di comunicazione o solo una sfortunata serie di coincidenze, tra lockdown e inflazione? Se fosse veramente la mancanza di carne il problema, c’è da chiedersi quanto lunga ancora sia la strada che la ristorazione vegana deve percorrere per essere considerata al pari di quella convenzionale.
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