
L’annuncio era arrivato alla fine del 2018, quando il governo giapponese annunciava l’intenzione di ritirarsi dagli accordi internazionali che tutelano le balene dalla caccia a scopo commerciale. E oggi, con estrema puntualità sui tempi previsti, il Giappone riapre la controversa caccia ai cetacei intercettati nelle acque costiere. Non certo una novità per il Paese del Sol Levante, storicamente legato a un’attività che non si è mai realmente interrotta, ma negli ultimi 30 anni è stata giustificata come caccia a scopo “scientifico”. L’unica accettata dal collegio internazionale della Whaling Commission (IWC), che dal 1946 cerca di vigilare sull’attività delle baleniere, per regolare la caccia alle balene su scala globale. Per questo, dal 1986, i membri della IWC hanno vietato la caccia per scopi commerciali, e solo ritirandosi dalla commissione – decisione che deve essere letta principalmente come una mossa politica – il Giappone ha potuto riaffermare la sovranità sulle proprie acque territoriali, per disporne a proprio piacimento.
Lo strappo del governo nipponico, però, vincolerà le baleniere giapponesi a interrompere qualunque attività in acque internazionali: dunque, da oggi – 1 luglio 2019 – in concomitanza con la ripresa della caccia a scopi commerciali, il Giappone dovrà interrompere quella a scopi scientifici al di fuori dei propri mari. Un dato positivo per la tutela della specie, considerando che in Antartide, finora, le baleniere giapponesi sono sempre state le più aggressive: solo nel 2016 il Giappone ha ucciso circa 300 esemplari, di cui 200 femmine gravide, ufficialmente per sostenere le sue ricerche sulla specie (con l’ultima spedizione, conclusa a marzo 2019, invece, il bottino “scientifico” dei balenieri giapponesi è salito a 333 balene Minke). In realtà, in tutti questi anni, il Paese è rimasto il mercato di riferimento per il commercio di carne di balena – dunque sempre al confine della legalità rispetto agli accordi sottoscritti, finendo più volte davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, con l’accusa di fornire solo parte del corpo alla ricerca, veicolando il grosso della carne al mercato commerciale, per scopi alimentari – nonostante il consumo procapite effettivo dei giapponesi sia piuttosto limitato e in evidente ridimensionamento (circa 30 grammi l’anno, per un valore complessivo di 4-5mila tonnellate, rispetto alle 200mila tonnellate l’anno consumate negli anni Sessanta; i dati li fornisce l’Animal Welfare Institute).
Cosa cambia da oggi? Le baleniere giapponesi si concentreranno sulla caccia alle cosiddette balenottere minori, che ancora vivono in abbondanza nel Pacifico, al largo delle coste nipponiche, perché la specie è stata quella meno coinvolta dal periodo delle grandi cacce, negli anni Settanta. Al momento, hanno riaperto ufficialmente la stagione 5 navi salpate dal porto di Kushiro, nel Nord del Paese, mentre altre 3 baleniere uscivano in mare a Sud, da Shimonoseki. Il limite imposto dal Ministero dell’Agricoltura, delle Foreste e della Pesca è stabilito a 227 esemplari fino alla fine di dicembre, nel rispetto di una ripartizione che prevede caccia libera a 52 balene Minke, 150 balenottere di Bryde (Eden) e 25 balenottere boreali. Soddisfatto si dice il governo giapponese, che negli ultimi anni ha più volte provato invano a spingere la commissione internazionale verso una ripresa della caccia, ma “etica” (il termine è quantomeno controverso per chi conosce la pratica, estremamente cruenta, dell’arpionaggio dei grandi cetacei), perché sottoposta a controllo. Proprio l’atteggiamento poco chiaro sempre tenuto dal Giappone, però, ha giocato contro ogni possibile conciliazione.
E con l’uscita dal patto, ora, il Paese si dice intenzionato a rilanciare un’industria strategica come quella della caccia alla balena, con l’auspicio che il mercato interno possa tornare a essere fiorente com’era prima degli anni Ottanta. Difficile, in realtà, che possa accadere, considerando quanto siano cambiate le abitudini alimentari dei giapponesi, e la loro sensibilità sul tema: fino al 2018, non a caso, gli stock di carne di balena importati nel Paese dalla Norvegia (che, ricordiamo, permette la caccia commerciale alle balene, e in quota crescente, unica nazione al mondo insieme all’Islanda, che proprio da quest’anno, però, interromperà la mattanza; mentre è ammessa, anche nei Paesi UE che ne fanno divieto, la commercializzazione della carne una volta lavorata, in attesta di una legislazione comunitaria più rigida) sono spesso rimasti invenduti. E questo perché solo il 5% della popolazione giapponese – i più anziani – mangia abitualmente carne di balena. Tra i giovani, invece, il consumo è pressoché nullo, e 9 giapponesi su 10 dichiarano di non aver comprato carne di balena nell’ultimo anno. La battaglia condotta dal presidente Shinzo Abe, dunque, è principalmente ideologica e politica, condotta in nome di un presunto attaccamento alle proprie radici culturali, e utilizzata per rivendicare autorevolezza in ambito internazionale (oltre che per giustificare i crescenti investimenti statali per alimentare un’industria in picchiata libera).
D’altro canto, però, l’IWC teme il rischio di emulazione: la scelta del Giappone potrebbe influenzare l’uscita dalla convenzione di Paesi altrettanto combattivi come la Corea del Sud e la Russia.
a cura di Livia Montagnoli
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