Nella Puglia di una volta, quella erede dei costumi della Magna Grecia, quella della enorme biodiversità dei pani e dei grani, il pane era un alimento completo, che doveva sfamare famiglie e lavoratori. A volte era pane e companatico insieme, serviva pure da recipiente di cibi e condimenti (lo vediamo in ricette antiche sopravvissute all’omologazione dei nostri tempi, come alcune versioni del pancotto) e doveva durare nei trasferimenti sui campi e sulle strade della transumanza. Questo spiega l’affezione per i grandi formati – si pensi alle enormi pagnotte del pane di Altamura o di Laterza – e spiega anche l’origine di un prodotto particolare come il pizzo leccese (anche detto salentino).
A dispetto del nome, questa tipologia di pane non si trova solo a Lecce, ma è tipico della zona meridionale della Puglia, quella del “tacco”, il pizzo è una pagnotta di grano duro, di formato piccolo, ma dal peso specifico notevole. Questa particolare tipologia di pane serviva a eliminare gli sprechi: creato per riciclare gli avanzi e i ritagli di impasto della panificazione del giorno (della sua composizione facevano parte letteralmente anche le raschiature rimaste sul fondo delle madie), veniva poi arricchito con i prodotti della campagna: olive, cipolle, pomodori, capperi e olio in abbondanza, in modo da conservarsi più a lungo, ma anche per garantire ai contadini o ai pastori, che nella loro giornata lavorativa avevano poco tempo per una pausa ristoratrice e certo non potevano tornare a casa per il pranzo, un nutrimento adeguato, che nel linguaggio odierno identificheremmo in un equilibrio di carboidrati, grassi fibre e proteine.
Oggi che non battiamo più le strade della transumanza, i pizzi sono considerati merende o spuntini ideali da portare al mare e continuano a essere prodotti dai forni che, viva viva, mantengono le tanti sfumature del pane tradizionale pugliese. A Taranto, per esempio, lo propone il panificio L’Ultima Sfornata, mentre a Lecce lo troviamo al forno Si.Se della famiglia Schipa.
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