"Con l’imitazione di Borghese ho reso lo chef libero. I foodblogger? Hanno rotto le palle". Intervista a Max Giusti

22 Giu 2024, 11:27 | a cura di
Il clamoroso successo di un’imitazione: in un mondo in cui tutti si sentono chef, evviva la franchezza!

Un autentico caso mediatico. Milioni e milioni di visualizzazioni, parliamo dell’ultima imitazione di Max Giusti dello chef Alessandro Borghese presentata nel programma GialappaShow. I suoi ciak tagliati di 4 Ristoranti sono diventati più celebri di quelli originali. L’abbiamo messo davanti ai nostri “fornelli” per curiosare nelle sue abitudini alimentari. Ecco il profilo completo di Max Giusti.

Conduttore televisivo, imitatore, attore di cinema, teatro e televisione, autore, doppiatore. Massimiliano Giusti è ospite del Gambero Rosso. Benvenuto!

Grazie a voi per l’invito.

Alessandro Borghese l'ha presa bene. Siete amici, soci di un circolo di padel e di un bistrot. Ha anche partecipato al suo programma Celebrity chef, giusto?

Sì, ho vinto contro Danilo da Fiumicino.

Cosa ha cucinato per vincere?

Ho portato l’abbacchio alla scottadito, la carbonara. Io mi faccio fare la carbonara dappertutto! Da quando faccio la parodia di Borghese tutti gli chef mi adorano: entro in cucina per fare la carbonara o la faccio insieme allo chef anche se è tardi. Poi alcuni non hanno il guanciale e io dico: metti la pancetta (sorride allontanandosi dal microfono, ndr.). Non me ne frega niente, siamo diventati molto precisi.

Come spiega il successo dell'imitazione di Borghese? Ha generato milioni e milioni di view sui social e record d'interazioni.

Già quando avevamo pensato all’anima da dare alla parodia del mio Alessandro Borghese sapevo che poteva colpire. Credo il personaggio venuto fuori sia molto un fumetto e gli permette di essere franco: il mio Alessandro è quasi un cartoon e ha una grande franchezza. E i tempi delle registrazioni sono perfetti per i social.

Libero.

Da quando è entrata la cucina in televisione siamo diventati tutti chef, prima non si giudicava: un piatto o era buono o cattivo. Adesso è anche uno stile: «Senti com’è? Non è così friabile», è anche un modo per parlare, per stare bene a tavola. Però ogni tanto qualcosa di liberatorio c’è. Volevamo un Alessandro libero, che in televisione poteva dire quello che non avrebbe mai potuto dire.

Ristoratori! Lei lo è nella vita reale.

Sì, mi sono ritrovato in società in alcuni ristoranti e sono andati bene. Ora da Play Pisana (circolo sportivo di sua proprietà, ndr) sono due: Casa Alice e Terzo Tempo, che ha appena aperto, a bordo piscina, molto carino. È forte perché ha una dicitura strana, il gestore l’ha chiamato “Brace bar” (letto come “breis”, ndr) perché la brace lui la traduce “breis”. Ma si può dire “breis”, Gambero Rosso?

Penso di no!

Penso de no anche io, t’avevo detto! (sorride, ndr)

Oltre alla brace?

Ha una cosa rara: la pizza romana buona che non trovavo da anni. È ormai completamente scomparsa.

Come deve essere la pizza romana perfetta?

Fina fina, croccante, che non si ammorbidisca al centro. Ormai non si usa più, così come la pizza alla teglia: ormai quasi tutta pizza alla pala che io trovo meno fragrante.

Un altro posto a Roma che fa la pizza romana buona?

Ivo a Trastevere, o anche pizzeria Ai Marmi, ma non ci vado da tempo.

Troppa fila? 

Non lo so, mi ha dato sempre l’idea dell’obitorio, siccome lo chiamano così a Roma, da quando si è diffuso questo nome, io me gratto…(sorride, ndr). Però si mangia molto bene, sono posti della tradizione romana.

Bollicine è il suo ultimo spettacolo teatrale. Come lei stesso ha dichiarato, l’ha chiamato così perché «le cose vanno dette, è come stappare una bottiglia, voglio essere diretto».

Esatto. E una cosa la voglio dire: mi hanno rotto le palle i foodblogger, non ce la faccio più. Mi intasate Instagram, un po’ va bene però ragazzi, che fatica!

Cosa le dà fastidio?

Ce ne saranno 160 di foodblogger e ognuno farà tipo: "Ho trovato la migliore pizzeria di via Prenestina, guarda! Guarda come fila questo supplì…". Meno! Mi sta stancando il foodbogger romano che esagera nel romano. Troppo. Un po’ più delicato.

E invece, cosa non è stato detto sul cibo che rimane ancora un tabù?

Bisogna saper filtrare lo spirito di ricerca dello chef, o più che altro l’ego dello chef.

Si spieghi meglio.

È che a volte, una cosa sperimentale o creativa può anche non essere gradevole. Il mio mestiere mi porta a mangiare almeno duecento volte l’anno al ristorante, ho quindi necessità di trovare una coerenza tra gli ingredienti e il risultato finale.

Più semplicità nei piatti?

Esatto. Ce l’ha spiegato anche Bottura al G7: ha fatto pane e pomodoro. Per fare un esempio: una volta sono stato a cena in un ristorante stellato di una città dell’Emilia, regione famosa in cui si mangia molto bene. I piatti avevano tutti emulsioni a base di pesce.

Quindi?

A quel punto ho detto una bugia bianca, di essere allergico al pesce. Mi sono fatto portare del culatello e del Parmigiano Reggiano stagionato. A quella cena c’erano tutti Amministratori Delegati di grandissime aziende che provavano a rubarmi quel culatello e Parmigiano, ma io non l’ho dato a nessuno. Magnate l’emulsione, tiè (sorride, ndr).

Quale è il suo comfort food?

Un crostino toscano, un pollo alla cacciatora, una carbonara, una pasta saltata molto semplice, non con troppa salsa o sugo: mi piace la pasta leggermente rosata ma neanche troppo secca.

Maradona, Malgioglio, Lotito, Al Bano, Renato Zero, Elton John, Renzo Arbore, De Laurentiis. Questi sono solo alcuni dei personaggi che ha imitato, con chi di loro andrebbe a cena e perché.

Forse Renzo Arbore. Avrebbe da raccontare un sacco di cose.

Parlereste di cucina pugliese?

Eh, «Praticamente jazz, quando sono arrivati gli americani a Napoli» (imita la voce di Arbore, ndr.). C’è stato il momento in cui lui si è innamorato di Napoli, ma ha sofferto il fatto che non fosse originario di Napoli, è pugliese. Ed è una persona interessantissima perché ha saputo cambiare la televisione, ma godersi la vita allo stesso tempo.

Televisione, come si mangia nel dietro le quinte?

In alcune mense, chi vince l’appalto abbassa il benchmark - come dicono quelli bravi -, per aggiudicarselo, però mangi frutta di terza, quarta scelta. Ricordo, anni fa, di alcune mense Rai o altre aziende in cui mangiavi come a casa.

E come si mangia a casa sua?

A casa mia si mangia semplice. Secondo me ognuno di noi ha le proprie fasi. Io ho iniziato mangiando quello che c’era; poi è arrivata la fase della televisione con gli amici che insegnano: «Prendiamo quel vino là». A un certo punto prendevo solo bianchi friulani e paste particolari. Adesso ti dico la verità: se c’è un buon pomodoro, un olio d’oliva buono, pane, una buona pasta, va benissimo. Credo che le materie prime molto semplici siano le cose che ricerco di più a questa età.

Mangia mai di notte?

Non più.

Come mai?

Per me ormai cenare di notte, soprattutto dopo uno spettacolo è come l’esperienza di Keith Richards con le droghe sintetiche (sorride, ndr.): la mia digestione fa sì che fra le quattro, le cinque del mattino io non dorma più. Se va bene, mi rigiro nel letto. Anche se per anni, la cosa bella di fare questo mestiere era quella di tornare alle tre, quattro di notte a casa e andare a vedere quello che c’era in frigo o in dispensa.

La cosa più “grave” nelle sue scorpacciate notturne?

Siccome vengo da una famiglia semplice, da noi si mangiava pasta a pranzo e a cena - che se lo dici oggi ti uccidono - e se ne faceva tanta. Noi mangiavamo mezzo chilo di pasta in tre: io, mio papà e mia mamma perché dicevamo: «così quella che rimane la diamo a Raf, il nostro pastore tedesco». Poro Raf, non gli è arrivata mai ‘sta pasta (sorride ndr.). E quindi se ne rimaneva un po’, la sera ci buttavo un uovo, un po’ di sale, la ripassavo così, un Tex Willer (fumetto, ndr.) alla mia sinistra. E questo background me lo sono portato tutto dietro.

Che bambino è stato a tavola?

Un bambino privilegiato. Ero il primo nipote di una famiglia di immigrati a Roma: mia mamma è sarda e mio papà marchigiano, sono un incrocio che non si trova in natura, Sardegna e Marche sono due regioni che non unisci mai. Come primo nipote maschio, ero l’unico che non veniva rimproverato da mia nonna, che cucinava marchigiano, se aprivo le pentole del pranzo della domenica.

Le piaceva aprire le pentole borbottanti?

Ho sempre avuto questo vizio: ovunque entro vado a scoperchiare le pentole e se non c’è nessuno, rubo! La cosa più bella era arrivare al pranzo della domenica di mia nonna e andare e rubare una coscetta di pollo prima o prendere un pezzo di pane e metterlo nel sugo, forse è il ricordo più bello che ho legato al cibo.

Che piatto?

Pollo alla cacciatora.

Quindi i sardi e i marchigiani sono diventati veramente romani a tavola?

Sì. Nelle periferie romane, quando si cucinava, ricordo si usava bussare al vicino e portarne un po’ della pietanza per il ragazzino: che ero io. Quindi c’era la signora napoletana portava salsiccia e friarielli, la sarda faceva un po’ di malloreddus, la bolognese potava le tagliatelle. E tu assaggiavi, la cucina fusion forse è nata in quei pianerottoli.

Ora le faccio sputare il rospo.

Sì, sputo (sorride ndr.)

Il migliore ristorante di Roma?

Ai Spaghettari dal 1896 a piazza San Cosimato perché Angelone (il titolare scomparso, ndr.) mi commuove è uno degli amici che più ho voluto bene e mi ha tolto la paura di Trastevere.

In che senso?

Perché Trastevere è un luogo iperturistico, iperfrequentato, ma lì a pizza San Cosimato c’è ancora quest’angolo dove sia il romano che il turista possono mangiare bene e prezzi onesti: cucina romana molto importante, non ha il vezzo di doversi imporre ma ha una cosa che adesso è rarissima, uno di quei menu con tantissime cose e te le porta tutte in pochissimo tempo. La carbonara, secondo me, non è blasonata come quelle che si danno un tono, ma è buonissima.

Com’è la carbonara perfetta?

Si fa con 60% di pecorino e 40% di parmigiano perché il pecorino romano è troppo forte; non amo quando mi servono la carbonara già con il formaggio sopra, la carbonara la voglio limpida con la sua salsetta, formaggio a parte: me la condisco io. Il guanciale a me piace rosa, non bruciato sopra, buttato lì, non mi piace mangiare questa specie di cicciolo emiliano secco. Infine, pasta molto al dente.

Se le dico pranzo della domenica, cosa le viene in mente?

L’unica cosa che ho notato è che non vedo più le pastarelle erano un must, prima c’era sempre uno di famiglia che usciva e andava a prendere le paste, adesso almeno nella mia famiglia si è un po’ persa come abitudine. A me piace una cosa molto da vecchio che non trovo più: le pesche con l’alchermes e la crema.

E se le dico zuppa di latte?

Tanta roba, da me c’erano due scuole. Da mia nonna Francesca, quella sarda, la zuppa di latte era con il pane, da mia nonna marchigiana, si mangiava con gli Oro Saiwa che non si scioglievano mai all’epoca. Noi abbiamo mangiato delle cose da ragazzini… le merendine del 1977, non oso immaginare cosa c’era nella lista degli ingredienti che abbiamo buttato giù.

E le merendine le mangia ancora adesso?

Fiesta! La classica. Preferisco. Se vado in tour e vedo la luisona alla Stefano Benni (dolce citato dallo scrittore nel libro “Bar dello Sport”, ndr.) che sta lì da giorni preferisco una Fiesta con il cappuccino alle cinque di pomeriggio: è tanta roba.

Il caffè con zucchero o senza?

Adesso senza, perché ho superato i cinquant’anni, altrimenti l’ho sempre preso con lo zucchero. Ora lo macchio con il latte. Oggi se chiedi lo zucchero, ti uccidono (sorride, ndr).

Quando si vuole rilassare mangiando a casa, che fa?

Il problema che ho io – per questo non sono mai stato magrissimo – è che il cibo è il mio premio. Quando posso staccare ho il mio cibo preferito: se mi dai buon pane, dei pomodori, un olio buono e sale io posso mangiare un filone di pane intero e non smetto! L’unica cosa che ho aggiunto negli anni è il dolcetto, prima non lo cercavo ora ogni tanto mi piace.

Ad esempio?

Ieri sera ho rimediato una vaschetta di un gelataio molto bravo.

Si può dire il nome…

Stefano Ferrara.

Era con noi qualche giorno fa, ci ha aiutato anche a scegliere i migliori gelati industriali per la nostra classifica.

Perché hai chiuso quella gelateria buonissima? (si rivolge a Ferrara, ndr.). Devo dire che me lo sono sbracato dopo la partita degli Europei. Pure lì, verso le quattro del mattino me ne sono pentito.

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