Cari chef, basta sequestri di persona a tavola. Una cena stellata deve durare massimo 150 minuti

8 Mag 2024, 12:12 | a cura di
In due ore e mezza uno chef ha tutto il tempo di esprimersi senza stremare il cliente e sfiancare la brigata. Anche perché dopo scatta l'effetto matrimonio

Aiuto, sono stato rapito, mi libereranno solo quando pagherò il riscatto. Anzi il conto. Spesso una cena fine dining dura troppo. Troppissimo. Una liturgia interminabile che inizia con il benvenuto dello chef – di solito una raffica di snack freddi o caldi su cui ti avventi famelico – e termina con gli inesorabili petit fours – che piluccherai distrattamente, stravolto dalla stanchezza e dalla noia. In mezzo ci saranno state sei, sette, otto, a volte dieci tappe di un golgota alimentare magari di notevole interesse gastronomico ma interminabile. Perché a tavola, come al cinema o a teatro, nemmeno un capolavoro può permettersi di durare troppo senza scatenare l’effetto “corazzata Potemkin”. Sì, sapete benissimo come va a finire.

A tavola con il cronometro

Quanto dura una cena stellata? E quanto dovrebbe durare? E perché superato questo tempo utopico tutto il resto è noia? Naturalmente la risposta è personale. Io, che nei ristoranti haute cuisine mangio più volte a settimana e ogni volta appena mi siedo faccio partire il cronometro del mio Casio da 29 euro, sono giunto alla conclusione che la durata ideale di un’esperienza è di due ore e mezza. Tempo netto, calcolato dal momento in cui ci si siede a quello in cui ci si mette il cappotto per andarsene. Centocinquanta minuti in cui – siamo franchi – un cuoco bravo ha tutto il tempo di esprimersi comodamente. Meno, si rischia che un cliente che magari ha risparmiato per mesi per concedersi quell’esperienza esca dal ristorante insoddisfatto. Più, si rischia che ne esca sfatto. E che al ristorante stellato non torni più.

Effetto matrimonio

Una cena non è una maratona. Personalmente, non ho smesso di andare ai matrimoni temendo l’uggia esiziale di pranzi chilometrici per trovarmi poi a vivere la stessa sensazione in un ristorante osannato dalla critica. Il fisico ha i suoi limiti di capienza e di pazienza, e vanno rispettati senza che l’artista dietro il vetro della cucina si senta sminuito nella sua performance. Ho parlato con molti chef blasonati di questo aspetto non troppo considerato nel fine dining, e tutti mi hanno risposto che effettivamente da qualche tempo cercano di tagliare qualche scena in sala di montaggio, alleggerendo tempi e storytelling perché hanno la percezione che un certo pubblico lo richieda. Molti di loro hanno convenuto con me sul lodo delle due ore e mezza. Peccato che poi alla prova dei fatti mi sia trovato a uscire dai loro ristoranti a mezzanotte e dintorni, e senza un Marzullo nei paraggi.

Rispettare lo staff

Rendere una cena più stringata significa rispettare il cliente ma anche la propria idea di cucina e il proprio staff. Quanto a quest’ultimo, un’esperienza più agile garantisce loro di tornare a casa a un orario decente, magari con la metro ancora in funzione, per ritagliarsi un minimo di normalità. Andrea Antonini di Imàgo all’hotel Hassler non accetta clienti dopo una certa ora e tiene un ritmo serrato nel servizio perché vuole che tutto sia finito entro le 23. Quanto alla cucina, ogni chef, anche il più egoriferito, è ben consapevole di non giocare al massimo per tutta la partita, e ha solo da guadagnare dall’eliminare uno o due episodi dalla serie. A parlar poco si passa per scontrosi, ma a parlar troppo si finisce inevitabilmente per dire qualche sciocchezza.

Quindici minuti

Che poi non è solo questione di tempi, ma anche di ritmo. Un’esperienza con troppi momenti morti può risultare noiosa, una con un ritmo troppo sostenuto può essere frastornante. Io quando vado al ristorante registro spesso la descrizione di ogni piatto con il mio cellulare e mi sono accorto che le clip hanno di solito uno stacco di 15 minuti l’una dall’altra. E’ questo il tempo giusto tra le portate? Alcuni chef mi hanno confessato di avere uno schema orario piuttosto rigido, basato su tempi fissi di uscita dei piatti, mentre altri si affidano al maitre per capire – in base al mood dei vari tavoli - se spingere sul freno o sull’acceleratore nel servizio. Un approccio empatico certo commendevole ma che non facilita il lavoro della brigata. Di certo se calcoliamo 15 minuti di distanza tra un servizio e l’altro, e le lungaggini dell’inizio (acqua, consultazione dei menu, ordinazione, qualche spiegazione, qualche incertezza) e della fine (dolcini, caffè, lo chef che si affaccia a salutare, il conto, un salto in bagno) ci dovrebbe essere comodamente spazio per sette portate principali restando nei 150 minuti. Sicuro che serva di più per passare da geni?

Come Nekrosius

Il problema secondo me è filosofico. Molti ristoranti applicano la teoria Nekrosius, dal nome del drammaturgo lituano scomparso qualche anno fa che inchiodava i suoi adoranti spettatori per intere ore alle poltrone dei teatri. In quel caso l’arte giustificava certi eccessi da calendario più che da orologio, ma comunque si aveva l’impressione che la lunghezza fosse sinonimo di qualità. “Avrà tante cose da dire, se lo spettacolo dura tanto”. Ecco, di teatro alla fine non mi intendo, ma capisco abbastanza di cucina da sapere che al ristorante non sempre è così. Anzi spesso locali mediocri con pretese fine dining utilizzano l’intimidazione temporale per accreditarsi. . Ecco, ragazzi cari, è tempo di stringere. Il conto, grazie.

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