Il Comune di Roma, dopo decenni di calvario, pare aver messo mano in maniera decisiva al problema della presenza di camion-bar nell’area centrale della città. È una faccenda che ci riguarda perché racconta l’esperienza gastronomica – oggi pessima – che migliaia di turisti compiono nel momento più bello e memorabile della loro visita. Un momento che rimarrà impresso nella loro memoria in senso positivo o negativo.
La storia dei camion bar
La querelle nasce alla fine degli anni Ottanta quando alcuni camioncini vennero autorizzati, in via temporanea, a somministrare “bibite e sorbetti” nell’area archeologica centrale di Roma in vista delle notti magiche dei Mondiali di Calcio del 1990. Le notti nella realtà furono magiche più che altro per i gestori dei camioncini che, a fronte di tasse di occupazione di suolo pubblico “ridicolamente basse” (lo urla incredula la stampa francese), hanno ‘temporaneamente’ presidiato le aree più prestigiose e remunerative della città per 25 anni senza mai vincere un bando, senza mai competere sulla qualità, senza mai rendere conto a nessuno e, salvo eccezioni, senza mai battere uno scontrino a dispetto di prezzi da passamontagna.
Le giunte all'amministrazione capitolina
Ci sono stati 3 anni di sindaco Franco Carraro, 7 anni di Francesco Rutelli, 7 anni di Walter Veltroni, 5 anni di Gianni Alemanno. In 2 anni Ignazio Marino (non per niente assediato da chi vuol toglierlo di mezzo) ha prima aumentato le imposte, pur ostacolato dagli ormai famigerati capibastone del Partito Democratico, e poi ha provveduto a recepire le indicazioni ministeriali (da anni il Governo spingeva per una soluzione che restituisse dignità a Colosseo e Fori): insomma dal 10 luglio – salvo sorprese purtroppo sempre attese – le camionette dovrebbero spostarsi a offrire panini così e così in luoghi molto meno impattanti dal punto di vista architettonico.
Le zone liberate e quelle sotto assedio
C’è da esultare? In parte si tratta di una decisione storica che sana un quarto di secolo di lassismo e connivenze (e magari anche di corruzione), in parte però occorre restare prudenti per almeno due ordini di motivi. Un motivo di scenario oggettivo ed un motivo di visione strategica. A livello di scenario occorre dire che solo una parte dei camion-bar verranno spostati, esclusivamente quelli che stanno tra Piazza Venezia e il Colosseo: gli altri rimarranno al loro posto con la loro proposta gastronomica diversamente interessante. Rimarrà quello che mortifica il panorama di Castel Sant’Angelo, rimarranno tutte le furgonette nell’area di San Pietro che umiliano il Colonnato e Via della Conciliazione, rimarrà il camion-bar che rende infotografabile la facciata di San Pietro in Vincoli, a dieci metri lineari dai marmi del Mosè di Michelangelo Buonarroti così come quello di fronte a Santa Maria Maggiore, quello sulla terrazza del Gianicolo e su quella del Pincio per tacere dei due a Fontana di Trevi e così via.
Il monopolio romano e la mancanza di una visione strategica
I camion-bar, intendiamoci, non ci sono solo a Roma: l’area di Corso Vittorio Emanuele e di San Babila (e anche di Piazza Duomo) a Milano ne è satura, la differenza rispetto a Roma è che quel business è, appunto, un business, discutibile quanto si vuole ma non certo, come nella Capitale, monopolizzato da un clan familiare: ecco perché il provvedimento può risultare deludente, perché non risolve alla radice il problema, non lo riforma, non fa decadere le licenze per riassegnarle (ai più bravi, non ai più ammanicati o, peggio, ai più anziani in ruolo), non fa altro che attività cosmetica in centro non capendo (ed eccoci alla visione strategica) quando sia importante consentire alla città di allinearsi all’offerta di cibo di strada propria delle altre grandi metropoli occidentali, da Parigi a New York, da Londra a Bruxelles.
Dov'è lo street food di qualità?
Si liberano insomma alcuni monumenti da presenze non più adeguate, ma non si consente a imprenditori che tengono alto il livello di qualità di prendere il loro posto, non si permette ai turisti di provare esperienze gastronomiche interessanti; non è data questa opzione, non è praticabile nonostante l’interesse per uno street food di alto livello sia massimo da parte di ospiti e italiani. La visione dovrebbe essere non esclusivamente quella di liberare il Colosseo da furgonette che vendono pessimo gelato, la visione dovrebbe essere quella di trovare il modo di far spazio, nei pressi del Colosseo o dei Fori (l’area è povera di esercizi commerciali, in alcuni punti completamente deserta per centinaia di metri), a chi propone un gelato di buon livello, un panino di qualità, una bibita ben selezionata, una serie di prodotti confezionati di caratura adeguata alle bellezze ed alla storia dei luoghi. Tutto ciò, ad oggi, nonostante vi sia su Roma più di qualche tentativo imprenditoriale su questo versante (si pensi al boom delle Apette), è impossibile. Per legge.
Nessuno può muoversi, non esiste la possibilità di proporsi, inventare, misurarsi sul mercato, innovare, rischiare in questo settore: il monopolio di una imprenditoria scadente ha provocato una chiusura e un arroccamento delle istituzioni. È tutto vietato, ciò che è buono e ciò che è cattivo: tutto.
L'appuntamento del 2017
Tra l’altro scappatoie e sentieri per intraprendere percorsi virtuosi ci sarebbero: uno si chiama Direttiva Bolkestein, norma europea che individua nel 2017 le scadenze di tutte le concessioni di commercio ambulante. Le licenze possono decadere e si possono ri-assegnare (all’asta, così il Comune inizierà finalmente a guadagnarci visto che fino ad oggi ha chiesto 1000 euro all’anno a realtà che ne incassano 1000 in mezza giornata) con parametri finalmente orientati alla qualità. E invece si tende a semplificare gettando il bambino (ovvero l’offerta di cibo di strada, colonna gastronomico di tutte le città nostre competitor turistiche) con l’acqua sporca (i camion-bar e il malgoverno che li ha tollerati nel modo che conosciamo).
L’auspicio è che questo passaggio indubbiamente epocale sia stimolo per l’amministrazione – non solo per l’amministrazione capitolina, tra l’altro – per mettere mano alla faccenda e per non fermarsi a provvedimenti corretti, attesi, positivi ma che devono costituire esclusivamente il primo tassello di un mosaico di riforma di un settore che non può essere gestito in nome di meri divieti.
a cura di Massimiliano Tonelli