Anche se – giustamente – dice che solo da noi si celebrano i decennali come traguardo e non come punto di partenza, è interessante chiedere a Paolo Marchi di “raccontare” Identità Golose, giunta appunto alla decima edizione. Del congresso italiano di cucina, il giornalista milanese è ideatore e curatore: con tutto il rispetto per il secondo ruolo, per noi resterà sempre più importante il primo. Ci voleva coraggio, intuizione e fantasia per mettere in piedi – nel Paese dei campanili e delle ripicche - un “meccanismo” del genere che a molti piace e a qualcuno no. Ma nessuno può negare che Identità Golose abbia portato un mattone – non un mattoncino – allo sviluppo della cucina italiana e soprattutto al pieno riconoscimento della figura di chef. Quindi onore a Marchi.
Paolo, per chi non sa, quando e dove nacque la scintilla di Identità Golose?
In Spagna. Mi aveva colpito a fine anni ’90 il successo de Lo Mejor de la Gastronomia dove era stato creato il vero palcoscenico per far conoscere nel mondo la nuova cucina iberica. Poi ho visto la nascita di Madrid Fusion con l’intervento diretto del Governo spagnolo e dei vari enti che erano lì per sostenere il movimento. Mi domandavo – da inviato - perché loro facevano le cose e riuscivano a portare al congresso chef da ogni Paese. Nel gennaio 2004 invitarono Cracco mentre una trentina di nostri cuochi erano lì in platea, solo a seguire. Tornando in aereo, io e Carlo ci convincemmo a vicenda che era giunto il momento di non stare in seconda fila. E sono partito con l’idea.
Hai trovato un grande partner in Claudio Ceroni, oggi mister Magenta Bureau.
Un colpo di fortuna. La persona con cui dovevo organizzare la prima edizione si tirò indietro alla vigilia dell’estate, avevo sei mesi per non fallire. Incontrai Ceroni perché sua moglie era una mia compagna di liceo con cui avevo mantenuto i contatti e ci trovammo subito bene. Lui ha la capacità di rendere concrete le mie visioni, quindi è fondamentale.
Il momento in cui hai capito che la visione iniziale era fattibile?
Prima ancora dell’incontro con Ceroni. Nell’aprile 2004 andai da Ferran Adrià - pagandomi viaggio e trasferta - e gli spiegai cosa volevo fare, chiedendo se sarebbe venuto. Lui mi disse solo: in quale data devo essere a Milano? Fu il segnale che Identità Golose aveva un senso.
La svolta al congresso?
Il trasferimento da Palazzo Mezzanotte alla vecchia Fiera. Alla quarta edizione mi sono reso conto che la sede della Borsa, centralissima ed elegante, stava scoppiando. E poi, sembra una stupidata ma era proprio così, la gente tornava poco per la sessione pomeridiana perché in zona c’erano tanti locali per il pranzo… Così nel 2009 ci siamo trasferiti al Centro Congressi di via Gattamelata ed è stata la mossa vincente. Sale più grandi, lo spazio per gli stand, zone di riposo.
La cosa che ti rende più orgoglioso?
Aver dato spazio a tanti giovani talenti italiani, diventati grandi.
Un esempio su tutti?
Niko Romito! È venuto da Rivosondoli, che non è New York, quando non aveva neppure una stella. Bisogna avere il fiuto e credere nel futuro.
Al contrario, cosa non ti soddisfa ancora?
Quando portiamo Identità Golose all’estero, dobbiamo ancora spiegare chi siamo e cosa facciamo per non essere guardati con sospetto.
Italiani inaffidabili?
Spesso è ancora così. Per colpa di chi prima di noi ha combinato disastri o magari li combina ancora. E io mi arrabbio, perché i cuochi e quanti ci sostengono sono serissimi. Ci vorrà ancora tempo, credo.
Secondo molti, il tuo vero merito è aver saputo mettere d’accordo i nostri chef.
Ma attenzione che pure all’estero litigano e sono gelosi, ma quando c’è di mezzo il “sistema” diventano agnellini. Il mio obiettivo, parlo di visione generale, è far passare l’idea che in Italia si mangia bene e la ristorazione è una cosa molto seria: se questo implica che i nostri chef facciano finta di volersi bene, per me non ci sono problemi.
Campanilismi da superare?
A nord delle Alpi non se li fila nessuno. Abbiamo innato un senso di divisione che penalizza anche la nostra cucina e sostanzialmente non interessa allo straniero che viene in Italia per mangiare e stop.
Cosa rispondi a chi sostiene che la kermesse ha prevaricato il convegno?
Che quando le cose hanno successo, diventano così. Quando è nato il campionato di calcio, c’erano quattro squadre ed è durato due giorni. A dieci anni dalla prima edizione, trovo positivo che siamo in grado di offrire – al meglio delle nostre possibilità - un congresso sulla cucina e una selezione di quanto fanno tante ottime aziende italiane.
Però qualcosa è cambiato negli anni…
Non discuto che negli anni eroici si avvertiva quel senso di “elettricità”, tipico del pionierismo, ma credo che stiamo facendo un buon lavoro.
Quanto agli sponsor…
Se ne trovassimo di più, sarei contento perché potremmo allestire un congresso più grande e ancora più bello. A parte che spesso le critiche sono figlie della gelosia e dell’invidia, mi sembra che poter contare su un gruppo di aziende leader nel settore, italianissime, sia un valore aggiunto. Non sono multinazionali o straniere, sono le stesse che ci seguono per il mondo. In più, magari qualcuno non sarà d’accordo, ma ritengo che abbiamo trovato un valido equilibrio tra sponsor ed espositori, nel quadro generale dell’evento.
Lo scorso anno hai introdotto la lezione di Carlo Cracco esclamando “Adesso riempite la sala e lo applaudite ma solo perché è giudice di Masterchef”. Una battuta, ma anche una provocazione sul fatto che la tivù ha cambiato la loro vita. Solo in meglio?
Direi di sì. Ma anche la nostra. Se penso che per anni, l’idea di cucina per milioni di italiani è stato il risotto dalemiano alla presenza di Vissani, come si fa a non apprezzare il salto di qualità? Sugli schermi passava solo la cucina casalinga, sinceramente avvilente sapendo le potenzialità del nostro movimento culinario. E comunque ora c’è una tale offerta che ognuno può scegliere il programma e il tipo di cucina che preferisce. Prima era impossibile.
Lati negativi del fenomeno: i cuochi sono più in televisione che ai fornelli, i giovani si sentono già Oldani a 18 anni, tutti si sentono critici…
Andiamo per ordine. Se uno va al ristorante per fare la foto con lo chef va rispettato ma non penso debba pretenderlo obbligatoriamente nel biglietto. Tra l’altro si esagera sulla portata della cosa, tutti hanno imparato a organizzare il loro tempo e le registrazioni sono molto concentrate. I giovani sono figli di un Paese dove se uno scia benino o fa tre gol viene considerato dai genitori come Tomba o Maradona. Tutti si sentono fighi, soprattutto quando un settore va di moda quindi il compito dei big è anche quello di spiegare come sono arrivati a quel punto, con talento e applicazione. Non bisogna illudere chi inizia, semmai spronarlo. Quanto alla critica…
Siamo un Paese di commissari tecnici ed esperti di cucina?
Semmai di tromboni che pontificano su tutto e tutti, a seconda del periodo. E di “lei non sa chi sono io”. Mi spiego meglio. Da un lato, effettivamente molti si sentono bravissimi nel wine & food e al ristorante fanno, disfano e pretendono: un sommelier proprio ieri mi ha confessato che si frega le mani quando trova il cliente presuntuoso, pronto a mostrare la sua abilità agli altri commensali. Di solito non capisce un tubo e prende bottiglie assurde. Dall’altro, ci sentiamo in diritto di criticare in modo spesso delirante chi ne sa più di noi. Trip Advisor ha offerto uno spazio impensabile a chi si sente in grado di recensire locali. Ma leggi di tutto.
A proposito di recensioni, quando scrivevi su Il Giornale eri spesso critico verso le guide. Poi ne hai creata una, arrivata alla sesta edizione, con un grande editore. Curioso, no?
Forse. Ma è realmente diversa dalle altre, visto che non ha una struttura in grado di seguire tutto. Ci limitiamo a segnalare i locali che “ci piacciono”, senza voti. Poi andiamo nel mondo a scovare i ristoranti vicini alla filosofia di Identità Golose. Tutto qui, senza presunzione.
Sei d’accordo con quanti sostengono che in Italia non si è mai mangiato così bene?
Sì, ma nel senso che una volta si mangiava per fame. Sino agli anni ’70 solo i nobili e la borghesia ricca potevano permettersi i ristoranti, in Italia o quando andavano in Francia.
Londra, New York, Chicago. Hai in mente altre rotte per Identità Golose?
Mi piacerebbe andare in Giappone, forse perché sono innamorato della loro cucina così rigorosa ed essenziale. Poi è un Paese che ancora non conosce le nostre eccellenze e la nostra ristorazione in modo totale. Ecco, sono convinto che Identità Golose sia un “vestito” importante all’estero perché ci si muove in gruppo. Non è il cuoco singolo che va in trasferta o il produttore che fa conoscere un vino o un prosciutto. È l’Italia e in assenza di un reale sostegno delle istituzioni chi lo fa?
Potrei dire Farinetti, ma lui fa business totale.
Uomo di orizzonti molto vasti, uno dei pochi italiani che pensa in grande ed è uscito dai nostri confini pur continuando a impegnarsi in Italia. Ci lamentiamo sempre che gli stranieri vengono da noi, ci comprano, aprono catene di supermercati, ci impongono questo e quello… Tipico esempio: il pollo di Bresse, standardizzato e portato nel mondo come fosse il top assoluto. Comunque sia, vedo che Farinetti viene criticato in casa per le scelte di aprire alla massa, come fosse una colpa. Da noi si continua a perdere tempo in polemiche sterili e non si pianifica una diffusione in quantità, senza perdere in qualità, delle nostre eccellenze agroalimentari.
Giocherete in casa l’Expo 2015, esaltazione del cibo. Che ne dici?
Ho in mente tante cose, inizieremo a ragionarci tra qualche giorno. Sarò scontato, ma a me sembra un’occasione imperdibile per il nostro sistema agroalimentare che ha la possibilità di compiere il salto decisivo. Se riusciremo a dimenticare il concetto delle poltrone e concentrarsi sul tema, per me si può realmente invadere il mondo con i nostri prodotti e recuperare gap storici.
Paolo, sicuramente con Identità Golose guadagni più di quando lavoravi per Il Giornale. Ma almeno sei diventato ricco?
Straricco di soddisfazioni. Ma soprattutto diversamente da tanti altri, sono riuscito a trasformare un hobby meraviglioso come la cucina in un vero lavoro. Non è male, penso.
a cura di Maurizio Bertera