2005
Il 2005 inizia con l’approvazione, da parte dell’Europarlamento di Strasburgo, della Costituzione europea. È un anno di forti tensioni per gli attentati terroristici sul suolo europeo e non solo. Il 7 luglio, il giorno dopo l'assegnazione delle Olimpiadi del 2012 a Londra, quattro esplosioni avvenute su diversi mezzi pubblici sconvolgono la città inglese, durante lo svolgimento della riunione dei G8 a Gleneagles, in Scozia. Muoiono 55 persone, mentre i feriti sono 700. Il clima è talmente pesante da indurre la Francia a sospendere il Trattato di Schengen, anche se per poco. In Iraq viene rapita la giornalista de Il manifesto Giuliana Sgrena: sarà poi liberata grazie a un blitz su cui tuttora pesano ombre e sospetti. Mentre la giornalista si trovava su un’auto che la stava riportando al sicuro, da un posto di blocco degli alleati arriva il "fuoco amico" che uccide il funzionario del SISMI Nicola Calipari. La magistratura italiana appurerà poi che il soldato Mario Lozano ha scaricato 58 colpi contro l'auto che li trasportava. Il 2005 è anche l’anno in cui avviene il “cambio di guardia” a Città del Vaticano: ad aprile, infatti, dopo due giorni di agonia, muore papa Giovanni Paolo II. Il 19 aprile si apre il Conclave: dopo un giorno di consultazioni la fumata bianca arriva per il cardinale tedesco Joseph Ratzinger, che sceglie come nome Benedetto XVI.
Scoppia lo scandalo bancario che coinvolge Fazio, Bankitalia, Fiorani, Popolare di Lodi, Bnl e Unipol, chiamato dai giornali “Bancopoli”. Il Parlamento boccia le quote rosa, il Senato dà il via libera alla “devoluscion”, “Fratelli d’Italia" diventa ufficialmente, dopo 60 anni, l'inno nazionale Italiano. Negli Stati Uniti viene abolita la pena di morte per i minori, mentre il vertice G8 cancella 55 miliardi di dollari di debito a 18 paesi poveri. In Germania, Angela Merkel vince le elezioni. La Francia abbandona le 35 ore settimanali di lavoro. Una svolta epocale avviene negli Emirati Arabi: le impiegate non dovranno più portare il velo in ufficio, mentre gli imam lanciano una fatwa contro il terrorismo dall’Inghilterra. A Madrid, il parlamento spagnolo approva la legge che consente alle coppie omosessuali di sposarsi e di adottare bambini. Nel fronte gastronomico, in Italia torna finalmente sulle tavole la bistecca alla fiorentina.
La crescita del turismo esperienziale
Chiamatelo turismo alternativo, ospitalità extralberghiera, accoglienza di nicchia, attività ricettiva minore, circuito di alloggio complementare, artigianato turistico. Chiamatelo come vi pare, ma un dato è incontestabile: in Italia stanno crescendo a vista d'occhio forme di ospitalità "altre" rispetto al mercato turistico convenzionale. Secondo uno studio elaborato dall'Otei (Osservatorio turistico extralberghiero italiano) in collaborazione con l'Anbba (Associazione nazionale dei b&b e degli affittacamere) in base a dati Istat, nel periodo 1990-2002 le strutture alberghiere sono passate dal 58,7 al 29,4 per cento nella torta complessiva del turismo, mentre la ricettività cosiddetta minore - con il suo esercito di bed & breakfast, agriturismi, alberghi diffusi, affittacamere - è salita dal 32,2 al 54,1%. E con grandi potenzialità e margini ulteriori di crescita, in quanto il fenomeno italiano di ricettività alternativa è ancora agli albori, essendo il Bel Paese arrivato all'appuntamento ultimo rispetto ad altre nazioni come Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania, Austria, Spagna, Portogallo. In più, tanto per rendere un po' più complicato il gioco, la legge quadro sul turismo affida alle Regioni la regolamentazione, con la conseguente diversificazione delle norme e delle regole da luogo a luogo. La voglia di un contatto più diretto con gli ospiti, il desiderio di scoprire storie e persone, di entrare nel vivo di una realtà (e anche di avere prezzi più concreti e meno gonfiati rispetto alla media alberghiera che in Europa è tra le più care) si confronta dunque spesso con la difficoltà da parte dei piccoli operatori del turismo di lavorare.
Il giornalismo enogastronomico in Italia
Se nelle lontane Americhe il dibattito su cibo e media si snoda sul doppio binario “spettacolarizzazione e approfondimento accademico e colto”, qui da noi regna invece incontrastata l'anarchia. Ognuno fa come gli pare. Ovvero, se Sparta piange, Atene non ride. E in effetti c'è proprio poco da stare allegri anche perché, a differenza di quello americano, il nostro è un orticello piccolo piccolo in cui ognuno spara all'impazzata senza neanche sapere bene quale sia il bersaglio da centrare. Eppure i problemi sono tanti e diversi tra loro. Prendiamo per esempio i nostri quotidiani. A differenza di quelli americani, e malgrado da noi esista una tradizione enogastronomica forte, nessuno dei nostri giornali ha mai neanche preso in considerazione l'idea di proporre un vero inserto cibo. Con l'introduzione del colore chi ci sta provando è La Repubblica con il domenicale curato da Licia Granello. Siamo ancora distanti dal giornalismo americano, ma è un primo passo. La cosa più sorprendente poi è che nei grandi media di informazione praticamente non esistano giornalisti impegnati a tempo pieno nell'alimentazione. A parlare di cibo su quotidiani e giornali sono per lo più figure di free lance o, stranamente, giornalisti provenienti in massima parte dalle pagine sportive. Gianni Mura della Repubblica è il prototipo più famoso. Allievo di Gianni Brera, Mura parla con cognizione di causa di cibo e vino anche quando fa le sue cronache sportive: celebri i suoi reportage dal Tour de France. Ha da anni una rubrica sul Venerdì dove, insieme con la moglie Paola, segnala ristoranti e trattorie "non di moda" e vini di piccoli produttori. Paolo Marchi del Giornale è un altro esempio di giornalista sportivo "prestato" al cibo in una prima fase, diventato vero e proprio giornalista gastronomico con l'andare del tempo. Insomma l'idea, a parte queste e poche altre eccezioni, è che chiunque mangi e abbia una certa passione per il cibo o per il bere possa a buon titolo scriverne e occuparsene.
E se è vero che la passione è spesso un buon punto di partenza per indagare il mondo circostante, è anche vero che da sola non sempre è sufficiente. Non solo, il fatto è che impedendo la nascita di quella figura professionale che è il food editor, per dirla all'americana, di fatto non si investe sull'argomento: non esistono infatti giornali che paghino solo per scrivere di enogastronomia. E non è un caso. Investire sul cibo vuol dire di fatto riconoscerne la valenza politica, sociale, e soprattutto culturale. E qui da noi questo crea ancora un certo imbarazzo.
È vero che ormai anche i bambini hanno capito che la cucina "tira", che parlare di chef, di ricette, di nuovi ristoranti, di mode e tendenze è un sistema quasi infallibile per vendere più copie (eclatante il caso del Corriere della Sera che ha visto aumentare le vendite quando ha allegato al giornale dispense e libri di cucina, seguito a ruota dal Giornale con una serie di dispense dedicate alle ricette e al vino), ma è altresì vero che l'ottica dietro a tutto questo è ancora puramente commerciale. Il cibo nel nostro Paese fa vendere molto, ma da qui a considerarlo cultura come accade nel resto del mondo, ce ne vuole. Per dirla in breve da noi un piatto di spaghetti fa talmente parte del quotidiano da renderne difficile un altro tipo di lettura. E questo ci riporta a una nuova anomalia tutta italiana.
Certo, ci sono nuove figure di giornalista come Paolo Massobrio, col suo Papillon, che iniziano ad aggregare attorno a sé appassionati di artigianato alimentare, organizzano mostre, hanno rubriche, news letter e pubblicano libri. Poi ci sono i grandi specialisti della ristorazione, Edoardo Raspelli in testa, con la sua rubrica del sabato sul supplemento libri della Stampa, le sue polemiche, la sua partecipazione a trasmissioni televisive, non tutte di successo. Luigi Cremona, a dispetto della magrezza, è uno dei migliori palati italiani, scrive sul mensile Monsieur ed è curatore della guida di alberghi e ristoranti del Touring Club Italiano. Volendo fare un'analisi accurata del rapporto media-cibo sul suolo patrio, ci si accorge che gli addetti ai lavori hanno spesso una visione assolutamente bipolare del fenomeno. Da una parte le riviste femminili (tranne qualche eccezione) e la televisione (e parliamo della generalista, anzi di un certo tipo di tv generalista, quella meno sofisticata, per capirci), all'inseguimento di audience e share, quella televisione da folklore, da improvvisati gastronomi da bar che si sfidano all'ultimo fornello alla ricerca dei famosi, warholiani, 15 minuti di celebrità che ormai non si negano a nessuno: il reality show "II Ristorante", grande flop dal punto di vista della qualità, insegna. E a seguire i Fornelli d'Italia, le Prove del cuoco, i Piatti Forti e compagnia mangiando. Per ciò che riguarda i canali monotematici, di Rai-Sat Gambero Rosso Channel preferiamo non parlare e lasciare agli altri il diritto di critica, viceversa per quanto concerne Alice ci sembra che in realtà ultimamente stia cercando di virare più sul cosiddetto “lifestyle” che su gastronomia e cucina.