Il boom di abbinamenti a gradazione zero
Riassumere in un calice le peculiarità di un territorio punteggiato da colline ricamate di vigneti, dove i filari sono a strapiombo sul mare e i fianchi dei vulcani ridisegnati dalle viti, è un’attitudine tutta italiana (primo produttore di vino al mondo) che si materializza in una produzione d’eccellenza apprezzata in ogni angolo del Globo (nei primi 8 mesi del ‘22 l’export del vino italiano ha superato i 5 miliardi di euro) e amatissima dai wine lovers nostrani (il 55% degli italiani consuma abitualmente vino). Eppure, nonostante una tradizione enologica millenaria, anche nel nostro paese è in atto una no alcol revolution pronta a mettere in discussione il monopolio in fatto di abbinamenti storicamente detenuto dal vino: sparring partner ammesso alla corte dei più grandi chef e spalla alcolica deputata all’esaltazione del fine dining.
Complice anche il cambiamento degli stili di vita e di consumo, il matrimonio vino&piatti d’autore inizia quindi a scricchiolare e a cedere il passo a percorsi liquidi alternativi, studiati con altrettanto rigore. Fanno così il loro ingresso nei menu firmati dai grandi chef calici di tè e tisane presi a prestito dalla sfaccettata cultura asiatica, succhi e estratti assoluti ottenuti dalla migliore frutta di stagione (ma anche verdura e erbe aromatiche), bevande fermentate di stampo nord europeo e anche cocktail No-Lo (no o low alcol) che traslano in versione liquida tecniche proprie della cucina. Un tripudio di miscele gourmet, in chiave liquida e alcol free, studiate per essere complementari ai piatti, per appagare e potenziare il percorso gustativo di chi – per scelta, religione o per salute – decide di rinunciare all’alcol. Il risultato è una drink experience che scorre su binari paralleli rispetto a quella offerta dalla controparte alcolica, che non intende certo replicare il piacere enologico ma che sa comunque regalare inedite sinergie di gusto.
La generazione zeta non ama l’alcol
A fare da apripista, ça va sans dire, René Redzepi che nel suo Noma di Copenaghen aveva introdotto eclettici blend analcolici (come siero di latte e cetriolo oppure succo di mela e germoglio di pino) da degustare in abbinamento ai piatti. Una scelta ricalcata anche da altri esponenti della New Nordic Cuisine da sempre particolarmente attenti alle esigenze di stampo salutista. E a subire le fascinazioni healthy e del bere responsabilmente soprattutto i giovani; lo conferma un recente studio internazionale sull'HBSC (comportamenti legati alla salute dei ragazzi in età scolare) sostenuto dall’OMS, che rivela come la generazione Zeta, ossia coloro che oggi hanno fra i 18 e i 22 anni, sia la più free-alcol di sempre: non solo beve meno delle precedenti, prediligendo acqua frizzante ed energy drink, ma non trova cool l’idea stessa di bere. Parte, dunque, proprio dalle nuove generazioni la spinta verso una mixology senza alcol che viene sostenuta anche da una fortunata challenge, “Dry January”, ossia la sfida social lanciata dall’organizzazione britannica Alcohol Change Uk che incita alla rinuncia volontaria agli alcolici per il primo mese dell’anno. Un’avventura in stile detox cominciata nel 2013 con 4.000 adepti e che lo scorso anno ha coinvolto un numero altissimo di persone: sono stati infatti più di 6 milioni coloro che hanno detto sì alla provocatoria proposta di passare un gennaio completamente a secco.
Differentemente accompagnato
Chi sceglie Joia, il primo ristorante vegetariano europeo a ricevere la stella Michelin e ancora oggi l’unico stellato vegetariano in Italia, è sicuramente alla ricerca di un’esperienza fuori dagli schemi; vuole esplorare uno spazio altro da ciò che è già noto sia in fatto di pratica culinaria che di accostamenti enologici (o non). “Chi viene da noi compie un viaggio attraverso emozioni inedite che coinvolgono anche il bere. E nel beverage, così come nel food, nel corso di questi anni abbiamo assistito a un cambiamento epocale – racconta lo chef Pietro Leemann – Oggi le persone sono più preparate, cercano un approccio naturale, consumano meno proteine e sono molto attratte dalla componente vegetale. Il cibo, dunque, si alleggerisce, diminuiscono gli eccessi e, tra di essi, anche il consumo di alcolici. Abbiamo, infatti, assistito a una crescita globale dell’analcolico che non potrà che aumentare ulteriormente. La mia previsione è che tra 10 anni il 30% delle persone saranno vegetariane e le restanti consumeranno meno carne. La stessa cosa avverrà con gli alcolici”. La proposta no alcol targata Joia è frutto di questa ragionata filosofia, della corrispondenza che necessariamente deve esserci tra la cucina e il bere, ma anche di molti studi e controprove.
“Dapprima abbiamo lavorato sul fronte dei vini: una decina di anni fa hanno fatto il loro ingresso in carta bottiglie provenienti da piccoli produttori e da aree generalmente non vocate. Vini macerati, biologici e biodinamici – spiega il sommelier e direttore di sala Antonio Di Mora – Ma non esistono solo vino o bere miscelato: per questo 5 anni fa abbiamo pensato a un pairing analcolico fortemente legato alla stagionalità. Certamente è una proposta complessa che all’inizio ha necessitato di spiegazioni, ma che oggi è scelta da circa il 20-25% dei nostri clienti. Si comincia con un tè fermentato cinese – offerto caldo l’inverno e fresco l’estate – preparato davanti al cliente con una gaiwan (una teiera del 1600) e che va abbinato agli antipasti; si prosegue poi con una kombucha, ossia una bevanda fermentata a base di finocchio e sedano verde pensata per esaltare la sapidità della zuppa e dei primi piatti. Un centrifugato di rapa bianca fermentato con spezie accompagna i formaggi e i secondi e, per concludere, un infuso di bacche rosse, mela gialla e cannella è stato studiato per dare acidità e creare un piacevole effetto a contrasto con il dolce”.
Quando il pairing è a base di tè
Un approccio alternativo è anche quello adottato dal ristorante Opera di Torino dove è il tè a fare da protagonista in un percorso degustazione, tra i piatti di Stefano Sforza, pensato dal maître e tea sommelier Gualtiero Perlo sia in abbinamento al menu più identitario dell’insegna, sia a quello vegetariano costruito intorno a un unico ingrediente. “Per poter offrire al cliente un’esperienza totalmente nuova è stata inserita, all’inizio del '21, la proposta di pairing analcolico a base tè. L’idea è quella di poter toccare, attraverso i tè selezionati, più paesi produttori, creando un percorso crescente di sapori in parallelo con quello fatto dai piatti dello chef Stefano Sforza. L’abbinamento non viene messo a punto in base al primo impatto che il tè lascia sul palato, ma rispetto al retrogusto. Per fare un esempio, allo spaghettone, cuore di mare e olio agli agrumi abbino il Kenya Marynin G.F.O.P., un tè nero ortodosso proveniente dall’altipiano Kericho, che si caratterizza per un forte gusto agrumato e che richiama i sapori agrumati del piatto. Rispetto al vino, la particolarità del tè è che non va sempre bevuto negli stessi momenti. Se un tè lo servo freddo per creare un contrasto di temperatura con il piatto, come il Keemun (freddo) e il brodo di topinambur (caldo) nel piatto Garganello, lenticchia, melograno e topinambur, allora il tè va bevuto dopo aver mangiato. Mentre nel caso citato del tè Kenya Marynin G.F.O.P. il consiglio è quello di berlo prima, durante e dopo l’assaggio. Al tavolo raccontiamo l’abbinamento del tè come alternativa al percorso a base vino, che resta sempre la prima scelta dei clienti. L’inserimento di proposte analcoliche, apprezzato perlopiù dai turisti indipendentemente dal fatto che provengano da paesi con una grande tradizione di tè, non ha spostato, almeno per ora, l’interesse dei wine lovers, mentre è servito a soddisfare un consumatore che prima rimaneva a bocca asciutta. Chissà, magari in futuro anche i clienti italiani potranno considerare il pairing a base di tè la loro prima scelta…”
a cura di Valeria Maffei
QUESTO È NULLA…
La frontiera del no alcol coinvolge anche i migliori chef del mondo, a partire da Giuseppe Iannotti con il suo Krèsios a Telese Terme, ma soprattutto stupisce e convince gli ospiti. Non è solo il fine dining a essere “colpito” dal fenomeno gradazione zero: prima la birra, la Peroni Nastro Azzurro (per dirne una), poi il vino con importanti nomi del settore vitivinicolo come Martin Foradori Hofstätter - che da tempo ha deciso di produrre una gamma dealcolata – per arrivare ai distillati. E sì, perché anche il distillato vede via via sempre meno zeri sulla propria etichetta. Ma non è tutto…
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