Sfogliatelle, mandarini e una bottiglia annacquata di Chateau Haut-Brion. La storia di mio nonno, Vittorio De Sica

25 Lug 2024, 09:21 | a cura di
Un filo invisibile lega nonni e nipoti: un dono di ricordi, profumi, affetto, parole. Oltre a nonna Titta, che mi ha acceso le papille gustative, anche nonno Vittorio ha contribuito a scolpire la mia identità

Per me era un nonno come tutti, non il regista famoso, vincitore di premi Oscar, pilastro del Neorealismo, icona nella storia del cinema e della nostra cultura. Agli occhi di me bambina Vittorio De Sica era un nonno tenerissimo, sorridente e con cui giocare. Malgrado un phisique du role non adatto, amavo mostrargli le mie ultime coreografie. Non proprio una étoile del balletto, piroettavo goffamente, e lui era gentile e mi "dirigeva" cercando di non ridere per non urtare la mia sensibilità quando cadevo a sedere. «Rifalla, ma con meno slancio», un nonno dolcissimo.

I ricordi di bambina di un nonno speciale

Poi crescendo ho masticato ogni suo film migliaia di volte e ancora mi commuovono certe scene: il piccolo Bruno che afferra la mano del padre e inciampa nel finale di Ladri di biciclette, la pellicola che ha cambiato per sempre la storia del cinema La preghierina di Pricò ne I bambini ci guardano presa para para da quella che recitava mia madre da bambina. La passeggiata a cavallo dei due piccoli protagonisti per Via Veneto in Sciuscià. Ogni minuto di Umberto D. Per non parlare del piccolo-grande capolavoro Il Giudizio Universale, che raccoglie nella città di Napoli vignette e caratteri surreali ma anche tanto veri e attualissimi.
Nonno Vittorio amava Napoli alla follia. Sosteneva che solo nu cafone 'e fora – come lui stesso si definiva da ciociaro di origine Salernitana – può amare Napoli più di un napoletano. La città gli ha dedicato una strada nel quartiere Stella, i cui vicoli sono stati tante volte catturati dalla sua cinepresa.

Il nonno buongustaio

Oltre a nonna Titta, che mi ha acceso le papille gustative, anche nonno Vittorio ha contribuito a scolpire la mia identità da un punto di vista sensoriale. Sempre elegante, affettuoso e attento alla sensibilità altrui, era anche un gran buongustaio. Amava la buona tavola, soprattutto ricette semplici, porzioni misurate: la pastasciutta, le minestre, i dolci. Quando mamma era piccola portava sempre una guantiera le sfogliatelle. Lei, che invece non amava i dolci chiedeva le "sfogliatelle col salame", e lui scoppiava a ridere.

Tutta la frutta, tranne gli agrumi

Nel 1911 ci fu una grave minaccia sanitaria: un'epidemia di colera. Per contenere i focolai, le autorità proibirono di mangiare frutta fresca. Ma per i bambini di casa, Vittorio era il secondogenito di quattro, non poteva mancare la frutta. Per procurarsene, la madre - mia bisnonna Teresa - si faceva aiutare da Vittorio di appena dieci anni durante gli acquisti dagli ambulanti. Lui faceva da palo mentre lei comprava qualche frutto. All'arrivo delle guardie lui intonava a squarciagola Torna a Surriento per dare l'allarme.
Di bocca buona, ma anche selettivo nelle sue scelte. Non amava aranci e mandarini. Nel nostro lessico familiare quando ci si offre di sbucciare per qualcuno un tarocco o una clementina, lo citiamo, sussurrando, «Agrumi, ohibò!»

(Acqua) e vino

Un altro ricordo riportato da mia madre che ci ha fatto sempre molto ridere risale a quando mio padre, Peter Baldwin, a Parigi ha chiesto a nonno Vittorio "la mano" di mia madre. Per festeggiare, i tre sono andati a pranzo a un bellissimo ristorante di cui non ricordo il nome, e nonno ha ordinato per l'occasione una bottiglia di Chateau Haut-Brion 1955 che il maître ha portato a tavola avvolto in una stoffa pregiata come l'infante di una famiglia reale. Dopo il rituale del tappo, l'assaggio e la mescita in bicchieri di cristallo, con un capannello di camerieri in adorazione, mio padre – poco avvezzo al vino e al cerimoniale ad esso associato – ha versato nel calice di vino mezza bottiglia di Evian. Il maitre è svenuto con un rantolo ed è stato portato via a braccia dai camerieri. Immagino lo sguardo di nonno rivolto a mia madre, un non-detto dal sottinteso "Sei sicura di quello che stai facendo?".

Vittorio De Sica tunnel Chiatamone, Napoli

Foto ©Federico Garolla

Avevo 7 anni quando è morto. Dannate sigarette

L'ultima volta che l'ho visto era già malato. Aveva un tumore ai polmoni che all'epoca non si curava. Siamo andate un pomeriggio a trovarlo io e mamma alla casa di Via Aventina, dove abitava. Siamo entrate nella penombra della sua camera, era a letto, e fece un gesto che racconta la sua grandezza, la sua anima delicata e buona. Respirava con l'ausilio della bombola d'ossigeno, e sul momento non ho capito la delicatezza del suo gesto, l'ho compresa anni dopo: appena abbiamo aperto la porta, nel vedermi si è illuminato e si è sfilato la cannula dal naso. Un gesto di dignità per proteggermi, evitare di spaventarmi con quell'accessorio medico.

Il ricordo più vivido, il profumo del caffè

Nonno Vittorio veniva a pranzo quasi tutte le domeniche, e poi faceva un riposino. A me il compito di svegliarlo con il vassoio del caffè, un rituale dolcissimo. La camera era sempre buia, le persiane tirate giù. Lui si svegliava piano, avvolto nel plaid di cashmere a scacchi marrone. Ricorderò sempre il profumo del plaid misto alla sua lozione per i capelli candidi, e del caffè. Lo sorbiva lentamente dalla tazzina a tulipano con il bordo celeste. A me lasciava il fondo: un anellino di caffè con i cristalli di zucchero che non avevano fatto in tempo a sciogliersi. Senza dire una parola mi sorrideva e questo era il segnale per bere quel goccio di caffè buonissimo. Un piccolo momento intimo di condivisione, solo nostro. Poi se ne andava, nel suo abito di flanella grigia, elegante e profumato di colonia inglese e di camoscio, come i suoi guanti. Mi faceva l'occhiolino e un sorriso sulla soglia di casa e via, fino alla settimana successiva.

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