Nel retrobottega di una pizzeria di Brooklyn c’è un ristorante fine dining aperto da appena un anno che secondo il critico gastronomico Pete Wells (quello che qualche mese fa annunciò il suo pensionamento da ipernutrizione) è il secondo migliore di New York. Si chiama Blanca ed è guidato da una minuta chef di origine cilena, Victoria Blamey, che ha studiato storia prima di scoprire che la sua strada era la cucina. E che ai suoi clienti propone una cucina avanguardista e tagliente, tutta sapori sgomitanti, che però si rasserena quando lei decide di tirare la pasta come una sfoglina padana, passione questa che ha preso dalla chef italiana Isa Mazzocchi, con cui ha collaborato.
In visita dai Cerea
Victoria ha trascorso due giorni in Italia alla scoperta del mondo dei Cerea, che l’hanno invitata per la tappa iniziale del progetto Us Is Us, un viaggio nella cucina statunitense che vedrà protagonisti tre chef americani che a Brusaporto, nel ristorante tristellato cuore del sistema Cerea, interpreteranno ciascuno due piatti iconici del ristorante bergamasco e poi presenteranno alcuni due loro signature. Victoria, classe 1979, ha realizzato un remake dell’Uovo all’uovo, stravolgendone la grammatica con un esito convincente fino a un certo punto, ma poi ha ingranato la quinta con l’edizione americana dello Spaghetto di tonno in ceviche, davvero entusiasmante, e con una raffica di piatti coinvolgenti: circoletto rosso per le Bietole con cioccolato bianco, per le Sorpresine con le chioccioline e per l’Empanada di granchio che ha come ospite inatteso le alghe cochayuyo, certe liane di mare attaccate alle rocce costiere del Cile che esibiscono un’imprevista carnosità e un sapore che ricorda la capasanta, il topinambur, l’abalone. Ma livello notevole anche per l’Ostrica semicotta con calamansi fermentato , per i Tortelli di alga con tartufo invernale, per i Cappelletti polline e Branzi e per il Sawara, che altro non è che lo sgombro. Il dolce è stata una Pastinaca con caviale.
Orgogliosamente femminista
Blamey è una chef tosta e ispida, orgogliosamente femminista ma senza la retorica di io-contro-il-mondo-maschile-brutto-e-cattivo. E’ capace di trarre ispirazione da ogni luogo, da ogni accidente, da ogni persona incontra sulla sua strada, ma guai a cercare di incasellarla in qualche cliché, potrebbe graffiare. Percorre la sua strada libera e concentrata in un piccolo locale biancheggiante che ha un solo tavolo per una dozzina di clienti, che per godere della quiete liturgica di una simile capsula devono attraversare l’onesta quotidianità di una pizzeria della catena Roberta’s in Moore Street, a Bushwick, tra forni ruggenti, pepperoni surgekate e rider frettolosi. A dare l’opportunità di cucinare in questo quasi secret restaurant che a New York è ormai considerato di culto è stato Carlo Mirarchi, il patròn dell'ubiqua Roberta's, che ha chiamato Vittoria per ridare nuova vita a questa navicella pirata aperta nel 2012 e poi chiusa dopo la pandemia per sopraggiunta mancanza di argomenti. Sono bastati pochi giorni di prova per convincere Mirarchi che Victoria fosse la persona giusta per riprendere il discorso. E sono bastate poche settimane di lavoro matto e disperatissimo per convincere la critica specializzata che dietro quella porta era rinata una stella.
Un percorso accidentato
Victoria è nata a Santiago del Cile. Chef per convinzione e per ostinazione, lei che mangia come un uccellino e che a Brusaporto rimproverava i ben corazzati Cerea di averla fatta mangiare troppo nei suoi giorni lombardi, ha studiato alla School of Culinary Studies di Santiago, poi ha fatto esperienze con Gordon Ramsay a Londra e al Vineyard di Stockcross, nel Berkshire, poi una capatina in Australia all’Interlude di Melbourne e la fondamentale stage poi trasformato in “posto fisso” al Mugaritz con Andoni Luis Aduriz, da cui uscì capobranco. Con questo bagaglio di idee e di rigore Blamey ha iniziato la conquista della Grande Mela, che si è rivelata più scoscesa del previsto. Tante cucine, chef visionari e pop-up entusiasmanti quanto fugaci, generi e livelli diversi in un ottovolante gastrico, con picchi come la guida del Chumley’s, dove stupì la critica per il modo in cui nobilitò un gastro-pub (“il cibo da taverna mai visto in nessuna taverna al mondo”, scrisse l’innamoratissimo Wells), e i sei mesi meravigliosi da Mena, il ristorante dedicato alla nonna Filomena, che aprì e chiuse nel 2022 per difficoltà economiche ma nel frattempo ebbe tempo di entusiasmare tutti. Ora Blamey ha trovato casa al Blanca: dodici posti al bancone, diciotto piatti di un omakase concettuale e latinoamericano con tocchi italiani e asiatici, tre ore di durata, 275 dollari al garrese, una lista d'attesa lunga così, una rabbia che arriva da lontano, un sorriso sornione. Chi fermerà Victoria?