Che si parli tecnicamente di Menzioni geografiche aggiuntive (oggi divenute Unità geografiche aggiuntive) o più evocativamente di cru, il nocciolo della questione non cambia. Negli ultimi anni, sempre più denominazioni hanno adottato, o stanno pensando di farlo, delle specifiche particolari in etichetta per differenziare le diverse zone di produzione. L'esempio, ovviamente, è quello francese, che con appellation, cru e village ha costruito tutto il prestigio del suo sistema vitivinicolo. Niente di nuovo: in fondo anche il concetto di terroir è prettamente francese, ma può prestarsi anche meglio alla nostra variegata cartina vitivinicola. La domanda, semmai, è se oggi il sistema può funzionare anche in Italia o se si rischia di creare ulteriore confusione nel consumatore, che già stenta a orientarsi in un oceano di 523 tra Do e Ig. I cru all'italiana sono o non sono un valore aggiunto per il nostro sistema vitivinicolo?
Unità geografiche aggiuntive. Chi le ha già adottate
Barolo e Barbaresco
Partiamo dal principio, da chi è ricorso alle Menzioni geografiche aggiuntive ante litteram. Era il 2007, quando il Barbaresco introduceva le cosiddette MeGa- Menzioni geografiche aggiuntive (66 in tutto), più o meno in parallelo al Dolcetto di Diano d’Alba (in quel caso si utilizzò il termine storico di Sorì), seguito nel 2010 dal Barolo (181 MeGa), dopo un lavoro ventennale. Il risultato è una vera e propria mappatura, così come racconta il giornalista Alessandro Masnaghetti, soprannominato anche “l'uomo delle mappe”, per il suo lavoro di rappresentazione delle aree di produzione: “Quello di Barolo e Barbaresco fu uno studio certosino, che di fatto andò a mettere nero su bianco una distinzione che era già acquisita per tradizione”. Anche questo legame con la storia ne spiega il successo dal punto di vista comunicativo. “Abbiamo deciso di introdurre le MeGa solo per le nostre Docg” ci dicono dal Consorzio “e per ora va bene così”.
A completare il quadro, è arrivata da ultimo anche la Docg Dogliani. “Quello che, però, teniamo a precisare è che non abbiamo mai voluto creare una piramide qualitativa. Quindi, ogni MeGa è considerata alla stregua di un’altra, che sia Cannubi o Bricco Cogni. Ed è anche questo l’aspetto che ci differenzia dai francesi: se loro prendono in considerazioni diversi aspetti, tra cui il valore e la rinomanza oltre confine, noi abbiamo mappato solo una differenziazione geografica. Motivo per cui non possiamo dire di essere di fronte a dei cru a tutti gli effetti”.
Il caso di Barolo
Secondo Masnaghetti, tuttavia le menzioni del Barolo “potrebbero tranquillamente essere paragonate ai cru francesi. Il principio è lo stesso e, soprattutto, se parli con uno straniero sei sicuro di utilizzare un termine che anche lui conosce”. Ma mette in guardia: “I cru non sono una bacchetta magica che risolve tutti i problemi: i risultati arrivano col tempo. Anche a Barolo ancora si discute su come poter migliorare il sistema per valorizzare ancora di più questo strumento”. In questo caso, il vantaggio è che ci si è basati su una tradizione già esistente. “Personalmente sono sempre stato fautore delle delimitazioni sulla base della tradizione, piuttosto che di quelle basate sulla mera base scientifica. Questo perché il produttore che, poi, dovrà comunicare quella menzione, deve essere nella condizione di capirla. Se crei una menzione che non capisce, calata dall'altro, sarà meno efficacie sul mercato”. A Barolo, quindi, il sistema ha funzionato perché era già un aspetto insito del territorio.
Foto Arcangelo Piai
Conegliano Valdobbiadene Superiore Rive
A seguire, è stato il Prosecco Superiore a cogliere l'opportunità, con l'introduzione delle cosiddette Rive, istituite come Menzioni nel 2009. Si tratta di piccoli appezzamenti vitati, in forte pendenza (nella parlata locale, rive significa proprio “terreno in pendenza”, dove sono prodotte le uve di migliore qualità. Per essere commercializzata con questa menzione, la produzione deve rispettare un disciplinare che prevede una resa massima di 13 tonnellate per ettaro, le uve devono essere raccolte esclusivamente a mano e l’indicazione dell’annata di produzione delle uve deve sempre comparire in etichetta.
In tutto, le Rive sono 43, di cui 12 che prendono il nome del comune in cui sono coltivate e 31 dalla frazione. In ogni caso, il legame col territorio è strettissimo e ogni tipologia esprime un particolare terroir. “Sono i vini per cui bisogna spendere delle parole” tiene a sottolineare il presidente del Consorzio del Prosecco Docg, Innocente Nardi “perché vanno descritti, spiegati, fatti amare. In questi dieci anni, abbiamo potuto constatare come il mercato riconosca pienamente il pregio di questa produzione che, essendo realizzata in aree particolarmente vocate e con norme viticole severe, è in grado di esprimere risultati sensoriali di particolare interesse, capaci in modo particolare di rappresentare i terroir di provenienza. Infatti, la crescita della tipologia Rive risulta particolarmente marcata in termini di volume e ancora di più a valore”.
Il Conegliano Valdobbiadene in cifre
Se nel 2018 la produzione di Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg è arrivata a superare i 91 milioni e mezzo di bottiglie, le Rive ne rappresentano 2,5 milioni (+27,9% sull'anno precedente) con un prezzo medio di 7 euro, in crescita del 12,4%. Complessivamente il valore è di quasi 18 milioni di euro (+43,6%). Interessante analizzare l'evoluzione di questi anni, a partire dalla superficie vitata, passata da 109 ettari del 2010 a 274 del 2017, in modo proporzionale ai produttori, che sono passati da 74 a 171 in sei anni.
“Oggi, però, l'intera denominazione è entrata nella fase di consolidamento” spiega Nardi “e, quindi, non si verificherà un aumento della superficie vitata perché l’ultima assemblea soci del Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg, a marzo 2019, ha deliberato la richiesta alla Regione Veneto di blocco delle iscrizioni dei nuovi impianti”.
Se si guarda al mercato, oggi la tipologia Rive è venduta per più del 50% nel canale Horeca. Il posizionamento di prezzo, in vendita diretta, evidenzia un ulteriore rialzo dei volumi collocati nel segmento Super premium (7 e 10 euro a bottiglia), che ha raggiunto un punto di massimo (29% circa dell’offerta di canale).
Unità geografiche aggiuntive. Chi le ha appena adottate
Soave Doc
Tra le ultime denominazione ad aver ottenuto il via libera del Ministero, c'è il Consorzio del Soave, che da poche settimane ha introdotto nel disciplinare 33 Unità geografiche aggiuntive, di cui 29 della zona classica. Si tratta, in questo caso, di un percorso iniziato nel 2017. Sebbene il primo passo in questa direzione sia stata la pubblicazione di “Vigne del Soave”, una vera e propria zonazione della Doc. “Le menzioni” dichiara con convinzione il direttore del Consorzio, Aldo Lorenzoni “rappresentano un punto di forza comunicativo nei confronti del consumatore. Anche all'estero”.
Le aree individuate e inserite nel disciplinare del Soave come Uga sono: Castelcerino, Colombara Froscà, Fittà, Foscarino, Volpare, Tremenalto, Carbonare, Tenda, Corte Durlo, Rugate, Croce, Costalunga, Coste, Zoppega, Menini, Monte Grande, Ca’ del Vento, Castellaro, Pressoni, Broia, Brognoligo, Costalta, Paradiso, Costeggiola, Casarsa, Monte di Colognola, Campagnola, Pigno, Duello, Sengialta, Ponsarà, Roncà - Monte Calvarina.
Piemonte Doc
Ed è sempre di poche settimane fa la notizia che anche il Consorzio della Barbera d'Asti e vini del Monferrato ha ottenuto il via libera del Comitato Nazionale Vini alla modifica del disciplinare per il Piemonte Doc, con l'introduzione dell'Unità geografica aggiuntiva Marengo, riservata alle tipologie Cortese frizzante e Cortese spumante. “È il primo passo verso un futuro utilizzo in etichetta del solo nome Marnego” commenta il presidente del Consorzio, Filippo Mobrici “a tutto beneficio di quel marketing territoriale a cui nessun vino può rinunciare”. L'obiettivo è che la tipologia raggiunga il suo vero potenziale: 3 milioni di bottiglie.
Unità geografiche aggiuntive. Chi pensa di adottarle
Verdicchio dei Castelli di Jesi
Tra gli ultimi ad accarezzare la possibilità di introdurre le Uga in etichetta (e, quindi, nel disciplinare) c'è il Verdicchio dei Castelli di Jesi: al momento solo una possibilità al vaglio dell'Istituto Marchigiano di tutela vini, attraverso l'istituzione di un'apposita commissione. “Abbiamo iniziato a parlarne per capire come si possa procedere nella pratica” spiega il direttore Imt, Alberto Mazzoni. “Ci sono 23 Castelli, ma l'idea è quella di operare una divisione in non più di sei zone, grazie al supporto dell'Università di Ancona, che si occuperà della zonazione”.
Non è un'operazione di pochi mesi, perché “si tratta di lavori che hanno bisogno di tempo: due o tre anni per poter completare la mappatura geologica e climatica. Intanto, però, bisogna ripulire il disciplinare e decidere a quale tipologia (classico, superiore, Docg, spumante, passito: ndr) applicare le unità geografiche”. Il confronto è già iniziato e gli obiettivi sembrano chiari: “Senz'altro è un modo per dare ancora più valore alla denominazione e proprio per questo motivo bisogna trovare la chiave migliore per realizzarlo”.
Chianti Classico
C'è, poi, chi parla di Menzioni geografiche – nel frattempo diventate Uga - da tanti anni. È il Chianti Classico, che da tempo cerca la via della differenziazione. Prima, nel 2014, con l'introduzione della tipologia Gran Selezione e la certificazione separata per la Riserva, poi con l'istituzione di una commissione tecnica proprio per valutare i vantaggi delle menzioni. “Stiamo lavorando in questa direzione” conferma il presidente del Consorzio del Gallo Nero, Giovanni Manetti “e contiamo di arrivare all’introduzione delle Uga entro fine anno. Per il momento” anticipa “ci focalizzeremo sul vertice della denominazione, quindi applicando le Unità geografiche alla Gran Selezione e individuando circa una decina di aree, per poi, eventualmente, andare avanti. La scelta è stata fatta principalmente su base comunale, con qualche eccezione. Non si tratta, quindi, di una zonazione o di un lavoro scientifico sul microclima, ma ci siamo basati su delle suddivisioni già esistenti”.
Manetti non ha dubbi sull’efficacia della strategia: “Paradossalmente, in un mondo globalizzato, l’unica via possibile per differenziarsi è radicarsi ancor di più nel proprio territorio. Al contrario del vitigno o della tecnica di produzione, l’unica cosa che non può essere replicata altrove è, infatti, l’appartenenza al proprio territorio. Ed è, quindi, l’unico parametro che può aggiungere valore”. Nel Chianti, così come in ciascuna denominazione che oggi guarda con sempre maggiore interesse a questi cru all’italiana.
Unità geografiche aggiuntive e marketing: un binomio vincente?
Ritorniamo, quindi, alla domanda iniziale. Oggi introdurre dei cru all'italiana è un valore aggiunto per il nostro sistema vitivinicolo? Non ha dubbi Alessandro Masnaghetti: “In questi anni, in molti, a partire dall'esempio del Piemonte, ci stanno lavorando e sono convinto che sia comunque un valore aggiunto: meglio fare qualcosa piuttosto che stare fermi. Tuttavia, la mia impressione è che non tutti abbiano ben presente come come funzioni il meccanismo, perché, magari, parliamo di zone dove la tradizione dei cru non era così diffusa. E purtroppo non tutti capiscono come utilizzare questo strumento anche ai fini della comunicazione. In ogni caso, ben vengano le iniziative in questo senso. Credo sia un valore aggiunto sia per le grandi realtà, che fino ad ora hanno preferito puntare più sul marchio aziendale che sulla denominazione, sia per le piccole, che si trovano così in mano una carta in più da giocarsi. Per le une e per le altre significa calarsi in un contesto particolare”.
Unità geografiche aggiuntive. Il parere del docente di marketing digitale
Si sofferma proprio sul contesto Andrea Rea, docente di marketing digitale alla Sapienza e responsabile del Wine Management Lab della Bocconi. Per il docente, infatti, il fenomeno dei “cru” nasce “dalla necessità dei territori di ritrovare un'identità perduta e recuperare le proprie specificità. E risponde anche alla richiesta di un certo tipo di mercato che chiede proprio di trovare questa autenticità”. Motivo per cui quella delle menzioni è una strategia che può avere successo, ma che deve essere gestita. “Prima di comunicare la propria specificità bisogna capire a chi comunicarla” continua Rea “non tutti i target sono interessati a questo messaggio. C'è, ad esempio, chi è interessato semplicemente a un prodotto di moda e non alla storia del suo territorio. Quindi, la differenziazione fa bene, purché sia mirata. Altrimenti, il grande rischio è di alimentare un'ulteriore stratificazione e, quindi, ulteriore confusione”. Ed è verso quel target mirato - ma anche verso delle occasioni mirate - che, poi, deve essere indirizzata la comunicazione, per non rendere vano tutto il lavoro precedente.
C'è da dire, però che, a favore del prodotto di territorio oggi gioca senz'altro il momento storico in cui “il cosiddetto consumatore di terroir” come sottolinea Rea “è in crescita. Tra i grandi trend in corso nel mondo del beverage, infatti, accanto a sostenibilità e benessere generale c'è la tipicità. Ed è proprio sulla tipicità che menzioni, cru e sottozone puntano per creare il loro valore aggiunto”.
a cura di Loredana Sottile
Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 4 luglio
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