Urbani Tartufi. I leader del mercato mondiale
Di storia alle spalle, Urbani Tartufi ne ha una lunghissima e fortunata: un secolo e mezzo che gli garantisce il primato italiano della lavorazione del tartufo. Eppure l'azienda umbra - forte di un quartier generale internazionale a New York e di una rete di Truffle bar & restaurant diffusa da Pechino a Dubai, a San Paolo del Brasile, molti in partnership con Eataly - sembra essere ben proiettata verso il futuro, grazie alla generazione più giovane della famiglia, brava a non adagiarsi sul prestigio della dinastia che oggi detiene da sola quasi il 70% del mercato globale dei tartufi, compresi oltre 600 prodotti derivati, per un fatturato di 60 milioni di euro all'anno (e si celebra nel Museo di Scheggino, Perugia, dove è cominciato tutto). Olga dirige con i suoi cugini l'attività avviata nel 1852 dal trisavolo Costantino, ma presto la quinta generazione Urbani lascerà spazio alla sesta, quella di Luca e Francesco, figli di Olga e promotori del progetto Truffleland, di fatto un grande “vivaio” a disposizione di chi vuole intraprendere la coltivazione di tartufo nero.
La simbiosi e le piante micorizzate
Uno spazio cioè, sempre ricavato nella Valnerina di Scheggino, messo a coltura un anno fa, dove crescono le cosiddette piante nutrimento del tartufo – querce, noccioli, carpini, lecci, pioppi, salici, tigli – che ricordiamo è un frutto spontaneo della terra e vive in simbiosi con le radici di alcuni alberi prediletti (in gergo è quello che si definisce un fungo simbionte). Dunque nella “terra del tartufo” non vi aspettate di trovare tartufi. Piuttosto, a un anno dalla messa a dimora, le prime piantine micorizzate disponibili per l'acquisto di terzi che vogliano intraprendere la tartuficoltura. L'innovazione perfezionata da Urbani, che ha pure brevettato l'invenzione, consiste proprio nel processo di micorizzazione delle radici cui sono sottoposte le piante della Truffleland: un trattamento che assicura la più alta concentrazione di spore fruttifere rispetto alla media europea di mercato, aumentando così le possibilità di raccolto. Per definizione, una pianta micorizzata si ottiene da un seme certificato di specie forestali ectomicorizziche unite in simbiosi con le principali specie di tartufo di pregio, richieste dal mercato e coltivabili.
Tartuficoltura. La sua storia e come si pratica
Chiariamo allora che la coltivazione di tartufi, di fronte a una domanda mondiale in crescita costante, è una pratica particolarmente redditizia, specie considerando la diminuzione della raccolta spontanea in atto da qualche anno nel nostro Paese (mentre altri Paesi “emergenti” beneficiano del vuoto). Ma non si improvvisa: ci vuole pazienza – perché una tartufaia dia i primi frutti passano dai 5 ai 7 anni, mentre l'apice produttivo si raggiunge intorno all'undicesimo – e una grande capacità di gestione del terreno, che deve garantire le giuste condizioni ambientali (previa analisi pedologica) per la crescita del tartufo. Storicamente la coltivazione di tartufi ha origini antiche: testi cinquecenteschi e trattati che seguiranno nei secoli a venire, già cercano di orientare la pratica, pur senza intuire la fondamentale relazione simbiotica tra pianta e tartufo. Solo nel corso dell'Ottocento si avvierà il metodo di coltura indiretta tramite alberi “vocati”, ma comunque a livello empirico (la scoperta si fa risalire al primo decennio del XIX secolo, su un terreno della Provenza). Perché si comincino a utilizzare piante micorizzate in laboratorio e allevate in serra, però, bisognerà aspettare gli anni Sessanta del Novecento. Per circa vent'anni la tecnica sarà limitata al tartufo nero pregiato, mentre le ultime conquiste della ricerca – nel periodo che dagli anni Ottanta arriva fino ai giorni nostri – mirano a rendere possibile anche la coltivazione di tartufo bianco pregiato. In Italia il comparto della ditte specializzate nella coltivazione e commercio di piante micorizzate è cresciuto di pari passo con il successo della tartuficoltura (che la stessa famiglia Urbani ha cercato di intraprendere, fin dagli anni Sessanta, con scarsi risultati, prima di avviare un proprio laboratorio di ricerca).
Truffleland. La tartuficoltura secondo Urbani
E Urbani si prefigge di dominarlo offrendo, sostiene la casa, “un business chiavi in mano” (in Italia e all'estero) che incentivi una filiera agricola sostenibile e di qualità. L'idea, sul lungo periodo, è quella di contribuire al riscatto di terreni incolti perché poco redditizi e compensare il disboscamento di zone vocate, aiutando l'aspirante tartuficoltore in tutto il percorso che lo conduce dall'avvio d'impresa al primo guadagno (stimato da Urbani, nel giro di 5-8 anni dalla piantumazione in 30mila euro netti per ettaro per una durata di 20-25 anni, ma ricordiamolo, la cifra è soggetta a molte variabili). Come? I tecnici di Truffleland guidano all'acquisto delle piante più adatte per il terreno in questione, ne verificano l'idoneità, realizzano l'impianto e prestano assistenza durante la crescita, fino alla prima raccolta (su richiesta Urbani mette a disposizione anche cani da cava già addestrati, come il Grifo Nero Valnerino). Poi interviene la divisione commerciale di Urbani, disponibile ad acquistare il prodotto al prezzo corrente di mercato, proponendosi quindi come garante della filiera (e mantenendo al contempo la sua leadership). Ma il vivaio di Truffleland ha anche velleità sperimentali: grazie ai microchip che monitorano le piantagioni, nei prossimi anni l'azienda raccoglierà dati sempre più precisi sulle piante più idonee alla tartuficoltura. Al momento le piante in vendita permettono la coltivazione di tre diverse tipologie: tartufo nero, tartufo estivo e bianchetto. E poi c'è l'Accademia, la Truffleland Masterschool, inserita nell'elenco delle fattorie didattiche accreditate dalla regione Umbria: in aula, laboratori di micorizzazione, germinatoi e serre per formare e informare studenti e operatori del settore, con il supporto di agronomi e docenti specializzati.
a cura di Livia Montagnoli