Mentre nell’aula della Camera dei Deputati si presentava una campagna a tutela del nostro panettone (ma è davvero utile?), in California un manipolo di panificatori e pasticceri italiani creava il panettone californiano. Apriti cielo...chissà quante critiche pioveranno sui social! Eppure l'iniziativa di Marco Mari e Carlotta Borruto – founders di Italia Innovation e California Innovation (più avanti raccontiamo cosa sono) – merita decisamente un approfondimento, se non altro perché sono riusciti a coinvolgere nell'impresa nomi del calibro di Davide Longoni, Matteo Piffer (Panificio Moderno) e Mauro Iannantuoni (capo pasticcere da Ernst Knam).
Italia e California Innovation
Marco e Carlotta quattro anni fa hanno dato vita a una società che si occupa di programmi culturali e progetti di innovazione, in Italia (Italia Innovation) e negli Stati Uniti (California Innovation). In parole semplici – ma la realtà è decisamente più complessa – organizzano dei corsi teorici e pratici dove, tra le altre cose, portano in giro gli studenti in visita ai vari artigiani per mostrare loro contenuti da riprodurre in scala. “Quest'estate mi sono aggregato nel tour californiano”, ci racconta Davide Longoni, che per l'occasione ha smesso i panni del maestro panificatore per diventare studente a sua volta, “abbiamo visitato bellissime realtà, come Dandelion Chocolate, una bean-to-bar chocolate factory nel Mission District di San Francisco, Tartine bakery, Patagonia, che ha anche una divisione food, la torrefazione Verve Coffee Roasters o i market Bi-Rite di proprietà di una famiglia palestinese”. Alcune realtà diventate poi partner in crime del panettone californiano.
L'idea del panettone californiano
Ma come è nata l'idea di questo panettone? “Alla base ci sono due ragionamenti”. Spiega Marco Mari. “Il primo è legato ai processi: abbiamo attivato uno studio sul futuro dell'economia manifatturiera, e ci siamo resi conto che l'innovazione tecnologica e i moderni fenomeni di urbanizzazione stanno producendo nuovi modelli di produzione”. La domanda richiede, sempre di più, una maggiore trasparenza sulla produzione e sulle materie prime in generale. “Il secondo, invece, riguarda proprio il panettone: nel mercato americano c'è un interesse crescente nei confronti del lievitato, interesse che però va oltre i prodotti importati, vuoi per le politiche protezionistiche di Trump, vuoi per una crescente sensibilità del consumatore medio che ama supportare produttori locali. E così sempre più panettieri hanno iniziato a cimentarsi col panettone usando materie prime californiane”.
Il coinvolgimento di Longoni e Piffer
“Dunque, le materie prime che rispondono a criteri elevati di qualità e sostenibilità, in California ci sono. Mancava però a nostro avviso un interprete autentico del panettone, così abbiamo contattato Longoni”. Che a sua volta ha coinvolto Matteo Piffer. “Davide è generoso e quando c'è qualcosa di bello da fare, ti coinvolge!”, racconta Piffer, “Ma, ad essere, sinceri questa volta ci ho messo un po' prima di capire lo scopo di tutto: si trattava di pensare al panettone come piattaforma culturale da replicare in vari stati. Ora che ho partecipato alla genesi mi è tutto più chiaro, Carlotta e Marco, invece di spostare le merci, hanno spostato il saper fare. L'idea di esportare il saper fare e di delocalizzare la produzione in vari luoghi, utilizzando di volta in volta materie prime locali, è un valore aggiunto e al tempo stesso una grande sfida”.
Libera circolazione di idee e saperi
E che ne è del made in Italy? “Ci sto ancora riflettendo! È una domanda che richiede una risposta complessa, o forse che non ha nemmeno una risposta. So solo che stiamo portando avanti un discorso protezionistico nei confronti dei prodotti, e se invece iniziassimo a tutelare il saper fare? Insomma, troviamo il modo di tutelare i saperi e promuoviamo lo scambio del saper fare, mettendo in moto un circolo virtuoso: una cosa la diamo noi e l'altra la riceviamo. Invece di spendere energie per proteggere e limitare, spendiamole per tutelare la trasparenza”. Propone il giovane panificatore.
Il panettone californiano studiato da Longoni, Piffer e Iannantuoni. E le difficoltà tecniche
“Pensiamo al panettone come piattaforma open che sposta il sapere e non le merci”, sintetizza Longoni, che alla fine ha creato, insieme a Piffer e Iannantuoni, panettone. (così è stato battezzato il prodotto, che a oggi conta tre tipologie) solo con materie prime californiane a cominciare dalla farina, che nello specifico è quella di Cairnspring Mills: “Non avevamo le schede tecniche dei loro prodotti e lavorandoli ci siamo resi conto che si trattava di farine rigide, dal glutine corto, così abbiamo creato un blend. Certo, il risultato è diverso dal tipico panettone italiano, risulta più briosciato, per intenderci”. Il burro è invece quello di Straus Family Creamery, le uova della fattoria Clover Sonoma e frutta fresca, zucchero di canna e noci sono stati selezionati da Sam Mogannam di Bi-Rite Market. I canditi sono quelli del pasticcere Micheal Recchiuti, fatti con arance e limoni biologici californiani, il cioccolato è di Dandelion Chocolate e il caffè di Verve Coffee Roasters.
Il panettone inteso come piattaforma open per parlare di altro
Dunque saper fare italiano, materie prime californiane e, in coerenza con questo panettone globale, il packaging progettato in collaborazione con Arabeschi di Latte, famoso studio fiorentin-londinese di food design. Mentre la produzione è stata resa possibile grazie alla KitchenTown, a San Mateo, sempre in California: un incubatore che fornisce impianti di produzione e macchinari con lo scopo di sviluppare le startup di food su scala commerciale.
Ma il tema fondamentale in tutta questa storia, come si sarà intuito, non è tanto il panettone californiano ma come si sta evolvendo il mercato.“Gli americani, ormai, non sono più interessati al panettone italiano in sé”, dichiara Marco, “sono attratti dalla sua sofisticatezza e dalla sua storia”. E questo è un concetto che si potrebbe applicare ad ogni prodotto italiano: ha ancora senso parlare di denominazioni d'origine? Ha ancora senso il made in Italy? “Credo stia diventando più importante il made by Italy. Il nostro vero potenziale è il nostro patrimonio culturale, tanto nel comparto manifatturiero quanto in quello agroalimentare. E dunque perché non convertire le denominazioni in certificazioni del saper fare?”. Che poi sono decisamente più difficili da replicare e delocalizzare. Quanti spunti da un semplice panettone...
a cura di Annalisa Zordan