Ci sono luoghi che al loro interno custodiscono mondi, e così fanno anche le parole che li rappresentano. La riserva di Torre Guaceto, nella provincia di Brindisi, in Puglia, è una di queste. Il nome, che deriva dall’arabo Al Gawesit e significa “acqua di sorgente”, ne indica(va) già il destino. In questa che oggi è una riserva naturale di Stato – l’unica in Italia, insieme a Ventotene (LT), ad esserlo sia di mare sia di terra, per un totale di oltre 3mila ettari di area protetta – le correnti marine abbracciano quelle di acqua dolce, ospitando una biodiversità ricca e preziosa.
La Torre aragonese che guarda l'Albania
All’ombra di una Torre aragonese che dal 1530 fa la guardia a questo tratto di Adriatico di fronte all’Albania, circa 230 specie diverse di uccelli passano ogni anno a svernare o migrare, per un totale di dieci milioni di esemplari. Si tratta di un’area di passaggio e sosta prediletta sia dalla fauna del cielo sia da quella del mare: in prossimità della costa, spesso si vedono nuotare anche balenottere e tartarughe Caretta Caretta (e quelle che a volte si arenano o vengono rinvenute in difficoltà vengono curate in un centro di recupero interno alla riserva).
Il parco agricolo e l'area naturalistica
Quando si parla di area naturalistica “protetta”, spesso ci si immagina una landa selvaggia e poco antropizzata. Non è il caso della riserva di Torre Guaceto che, anzi, si fonda sul connubio e sulla collaborazione tra uomo e natura. Buona parte del suo territorio – 800 ettari circa – è oggi ricoperta da parco agricolo, mentre solo un (piccolo) tratto di mare è off limits per i pescatori. «L’uomo qui è presente da millenni e vi ha sempre lavorato, non avrebbe avuto senso estrometterlo completamente», ci dice Alessandro Ciccolella, direttore del consorzio di gestione dell'oasi. Inoltre, siccome sono proprio le condizioni morfologiche e ambientali di Torre Guaceto a renderla una delle zone umide più importanti del Mediterraneo e a donare ai suoi prodotti gusto e proprietà organolettiche speciali, l’interesse sin dal principio è stato quello di riuscire a tutelarle e valorizzarle, non di sabotarle. «Pur avendo come obiettivo la salvaguardia del patrimonio ambientale e paesaggistico non abbiamo imposto regole troppo rigide agli agricoltori – spiega Ciccolella – Abbiamo preferito creare un sistema di premialità, assegnando il marchio della riserva a chi si fosse convertito al biologico e dando la possibilità di accedere ai presidi. Sin dal 2002, appena due anni dopo l’istituzione della Riserva Naturale, è partita la partnership con Slow Food, che prosegue ancora oggi».
Un dialogo complesso e non facile
Soprattutto all’inizio, però, instaurare un dialogo costruttivo con agricoltori e pescatori non è stato facile (e “non facile” è solo un eufemismo). «I primi incontri con l’Ente Parco erano infuocati, perché tutti temevano di perdere il lavoro», ricorda Mario Di Latte, direttore dell’azienda agricola Calemone di Torre Guaceto, per anni nel difficile ruolo di mediatore tra le parti. «Una volta compreso che le intenzioni dell’Ente erano altre, si è instaurata la sinergia e tutti abbiamo capito che ci avremmo guadagnato». E così è stato. La conferma arriva dallo stesso Di Latte, tra i primi a credere anche nel “ritorno” del pomodoro fiaschetto, una varietà autoctona di pomodoro dal sapore dolcissimo che, grazie al Presidio Slow Food, negli ultimi quindici anni è tornato in produzione. «Il fiaschetto (chiamato così perché in origine aveva la forma di fiasco per il vino, ndr) era la varietà di riferimento della zona, rinomato soprattutto per la salsa – spiega Di Latte – Tuttavia, siccome coltivarlo era diventato troppo dispendioso, negli anni ‘80 stava quasi scomparendo. Intorno al 2006 ho deciso di recuperarlo e nel 2008 ho creato il primo “campo nuovo” interno alla riserva. Io credo che tutti i prodotti siano legati al territorio e viceversa: la vicinanza al mare e l’acqua salmastra della riserva sono in grado di conferire ai prodotti sapori particolari e non è un caso che il fiaschetto venisse coltivato qui e non altrove. I nostri antenati non erano mica fessi».
Il ritorno, da cuoco ad agricoltore
Raffaele Leobilla, 42 anni, per quindici ha lavorato come cuoco in giro per l’Italia. «In Val Gardena ho fatto mangiare chiunque, persino Schumacher», sorride lo chef. Nel 2015 è tornato a lavorare nell’azienda agricola di famiglia, Pietrasanta, «che a Torre Guaceto fa olio da tre generazioni». A un chilometro dal mare, ottanta piante secolari di Ogliarola salentina regalano infatti il Karpene: «un olio che vanta anche sentori di frutti di bosco racconta con un certo orgoglio Leobilla – La prima regola che ho imposto in azienda è stata quella di dare priorità alla qualità, anche attraverso il biologico, piuttosto che alla quantità. Oggi raccogliamo a fine settembre, perché le note di amaro e piccante dell’olio si ottengono meglio se l’oliva è un po’ acerba. Prima, invece, si preferiva aspettare dicembre per migliorare la resa». Sui 15 ettari a disposizione in riserva, Raffaele e il fratello Donatello non producono soltanto olio, ma anche il Carciofo della Terra dei Messapi – una qualità autoctona antica, divenuta da poco anch’essa presidio Slow Food – fave e tre tipi di grani antichi: Cappelli, Saragolla e Maiorca. Grano e fave vengono rotati annualmente sui campi con il pomodoro fiaschetto, di cui sono anche loro produttori, visto che la rotazione aiuta a ridurre l’impatto ambientale e a diminuire l’uso di pesticidi. «Quando diventi padre pensi sempre a che cosa mangerà tuo figlio e ci stai più attento. Per questo voglio che il cibo di oggi sia il più possibile sano».
Agricoltura a prova di natura
Che l’agricoltura praticata qui sia a prova di salute lo dimostrano anche le api, vera e propria cartina tornasole delle condizioni ambientali di un territorio. «Tra cambiamenti climatici e uso indiscriminato di pesticidi la loro vita è diventata molto difficile», osserva Simone Valente, apicoltore per passione con l’azienda SiFe. «Ma non qui a Torre Guaceto, dove ogni anno produco tre quintali e mezzo di miele e le api non muoiono come altrove. È vero che questi animali hanno bisogno di molto amore e cure, ma è anche vero che sono insetti assai resistenti: averli portati quasi all’estinzione significa essersi messi davvero d’impegno». In che modo? «Gettando i diserbanti sui campi in fiore, oppure privandole della loro risorsa primaria, l’acqua. Che, invece, per fortuna a Torre Guaceto non manca».
Una pesca sostenibile
«Prima si buttavano in mare reti strette, bombe, e si pescava di tutto, anche i pesci più piccoli. Oggi usiamo solo reti a maglia larga e peschiamo sette volte di più». Cosimo De Biasi, 57 anni, è uno degli otto pescatori “convertiti” di Torre Guaceto: un passato “esplosivo” da predatore dei mari, quando è stata istituita la Riserva ha dovuto negoziare nuove regole per continuare a lavorare qui. «All’inizio non mi fidavo», ammette. Ma presto si è dovuto ricredere. Gli otto pescatori autorizzati dal Consorzio – solo professionisti e residenti nei comuni di Brindisi e Carovigno – accedono alla fascia marina più esterna della riserva una volta a settimana, praticando una pesca sostenibile con reti di cotone a tramaglio e rispettando i fermi biologici, necessari al ripopolamento della fauna ittica (cresciuta del 400% in questi anni, e non solo qui visto che i pesci di Torre Guaceto sono stati ritrovati con i microchip fin nel golfo di Taranto e addirittura in Albania). «Dopo un po’ ci siamo accorti che il pesce pescato era molto di più, molto più grande e molto più buono», racconta Cosimo. Tra acque salmastre e sbalzi di temperatura, infatti, triglie, sarde, spigole, cefali e anguille trovano le condizioni ideali per crescere e proliferare. Offrendo ai pescatori un pescato di eccellenza, «apprezzato da ristoratori e clienti, e che al mercato costa quasi il doppio, pure 28 euro al chilo».
Anche il fatturato aumenta
E così, a conti fatti (e non solo per modo di dire: il fatturato rispetto a chi opera fuori dalla riserva è tre volte maggiore), l’ostilità iniziale si è tramutata in collaborazione. Oggi, sono gli stessi pescatori a segnalare alle autorità i colleghi di frodo presenti nella riserva, o a prestare soccorso a delfini, tartarughe e altri animali in difficoltà. Un circuito virtuoso che si autoalimenta e che, come racconta Cosimo, è diventato un modello anche per altri: «Da Spagna, Francia, Croazia e Albania ci chiamano per chiederci come abbiamo fatto e per gemellarci con loro».