La cena "funerale" non si augura a nessuno. Quando i ristoranti chiudono non c'è mai da essere contenti, anche se sono posti mediocri, perché dietro a un'insegna che si spegne ci sono le persone che vi hanno lavorato. E che purtroppo un lavoro non ce l'hanno più. Quindi non si piange per i piatti iconici, l'esperienza perduta, i vini che non si ha più l'opportunità di bere, tanto meno per le lagne poetiche degli chef che fanno interviste tutte uguali. Si piange, o perlomeno si dovrebbe, per i suoi lavoratori. Era quindi difficile rendere la cena "funerale" che chiude la terza stagione di The Bear il momento meno empatico di tutta la serie tv. Chiude l'Ever - ristorante pluripremiato in cui il protagonista Carmy Berzatto (Jeremy Allen White) ha lavorato anni prima - per decisione della stessa chef Andrea Terry (l'insegna esiste davvero, ma l'originale di Chicago, due stelle Michelin, è vivo e vegeto). Mentre i dialoghi correvano, le parole prendevano posto nel firmamento della noia, ci si domanda: "Ma quando finisce?". Ed è più o meno questo lo stato di apatia con cui, puntata dopo puntata, si continua a guadare l'ultima stagione di quella che viene considerata - citando il New York Times - «la serie migliore e più bella della tv sul lavoro e la creazione» in cucina. Ma sempre il quotidiano statunitense aggiunge: la nuova stagione «è una sorprendente dimostrazione di talento, ma è probabile che lasci deluso chiunque speri in uno slancio narrativo». Chi siamo noi per contraddirli.
The Bear 3 è incredibilmente noioso
La cena "funerale" è un po' il riassunto dello stereotipo narrativo con cui Christopher Storer, creatore della serie, perpetua un racconto che nella prima stagione ci aveva conquistato. In quella scena, ex dipendenti del ristorante prossimo alla chiusura e amici chef si crogiolano nei ricordi dei loro primi piatti, i primi giudizi ricevuti, gli errori da cui hanno imparato. Carmy è lì con lo sguardo perso nel vuoto immerso nei flashback dove rivive i maltrattamenti ricevuti in cucina da uno chef blasonato. Sono cose vere, che succedono, ed è sempre stato il bello di The Bear: parlare al grande pubblico anche delle criticità della cucina. Ma in qualche modo quella narrazione di sottofondo, a volte volutamente esagerata, ha ceduto il passo all'estetica cinematografica che ha reso il messaggio meno interessante. Quindi il tutto risulta incredibilmente noioso.
Personaggi che non crescono
I dieci episodi sono sicuramente brillanti nell'esecuzione ma troppo spesso ripetitivi, e quindi già visti, nella loro reiterazione di conflitti familiari e professionali consolidati. I dialoghi sono spesso ridotti al minimo, c'è sempre tanto rumore e confusione come nelle precedenti stagioni, conversazioni in cui i protagonisti si avviluppano su un dettaglio e ci girano attorno fino alla sfinimento. Carmy e il cugino Richie, a cui vogliamo tutti bene come se fosse nostro fratello, si insultano in cucina con una serie infinita di "fuck you", "fuck you", "fuck you" dentro a un crescendo vocale. Uno schema che si ripete sempre, qualunque cosa facciano i protagonisti. Calma apparente, col nervosismo che taglia l'aria, le parole corrono sul filo di un rasoio e poi qualcuno esplode. All'inizio le stesse scene erano ipnotiche, ora sono diventate pedanti. I personaggi sono sempre stati ben caratterizzati, così come le loro nevrosi, ma il problema è che sono rimasti sempre uguali. Fin dalla prima stagione lo chef è chiuso in sé stesso, incapace di dialogare con il suo staff e con i suoi affetti, intrappolato nell'indicibile voglia di successo. In tre stagioni quasi niente è cambiato.
Il raviolo col tuorlo liquido: no, grazie
È diventato monotono anche il racconto intorno alla cucina. Non i temi trattati, ma il modo con cui se ne parla che segue sempre lo stesso schema. Carmy decide che il menu va cambiato tutti i giorni, bisticcia in continuazione con la sous chef Sydney che la ritiene una scelta sbagliata, urla di nuovo con Richie che in sala impazzisce per ricordare piatti sempre diversi, litiga con lo zio finanziatore che gli dice che il ristorante è diventato economicamente insostenibile. Quello del menu è un tema reale, un'ossessione di molti chef, ma il concetto è talmente radicalizzato (nessuno a quei livelli cambia piatti tutti i giorni) che alla fine il messaggio di fondo si perde e il tutto diventa stancante. Tutta quella fatica poi per proporre un raviolone col tuorlo liquido dentro? Non scherziamo.
Ridateci il panino di The Bear
La scena finale è una grande anticipazione della quarta stagione, con Carmy che riceve sullo smartphone la recensione decisiva del Chicago Tribune sul suo ristorante. Apre l'articolo e sullo schermo appaiono parole contrastanti, a tratti entusiaste ed elogiative, a tratti terribili e devastanti. Non sappiamo quindi se il giornale abbia promosso o meno il menu dello chef. Una confusione che fa percepire quanto le recensioni, almeno a certi livelli, pesino su chi lavora in un ristorante. Ma anche in questo caso, lo schema è sempre lo stesso, talmente esasperato che quasi non ce ne frega niente di quello che leggeremo.
Se The Bear 3 fosse un raviolo, lo giudicheremmo scotto. Sciapo, scontato, noioso. Con un ripieno al profumo di cliché. Ti fa rimpiangere il vecchio locale lurido e grossolano. Lo zozzone che pecca di fantasia ma ti regala la semplicità del gusto forte. Senza posate, con un'unica grande salvezza: il tovagliolo di carta. Ridateci il panino di The Bear da mangiare sul muretto, morso dopo morso, la carta stagnola che trasuda e col liquido dei succhi di cottura della carne che ti cola tra le mani. Senza essere costretti a sognare di mangiare alto. Chef!