Il carrettino della felicità: anche negli ospedali in Thailandia lo street food è il cuore della vita sociale

18 Set 2024, 08:23 | a cura di
Lo street food e i "pancake to go" sono elementi centrali della vita sociale thailandese, anche negli ospedali

Mi guardo la maglietta bianca cercando macchie di sangue. È candida ma non mi fido ancora: fino a qualche ora fa tenevo Zalo per le spalle, mentre era carponi a terra, un buco nel braccio.
Nelle isole thailandesi del sud la pioggia cade selvaggia e viva: profuma di verde, bagna le scale formando piccole cascate a ogni gradino. Su quelle scale delle isole thailandesi del sud, questo pomeriggio, Zalo è scivolato per tre, quattro gradini, infilandosi nel bicipite il puntale di vetro del corrimano. Mi sono girato di scatto, in tempo per assistere al momento esatto in cui realizzava di essersi squarciato il braccio: ho visto gli occhi spalancarglisi, meravigliati dal dolore che le sinapsi avevano improvvisamente deciso di trasmettere al cervello.
Ora sta bene.

L'attesa nel buio davanti all’ospedale

Sono seduto davanti al piccolo ospedale dell’isola, alle due di notte, dove il buio è totale. Non passano macchine, non c’è nessun via vai di ambulanze, non ci sono cicale. L’unico rumore che resiste, in sottofondo a tutta questa oscurità assonnata e calda, è il ringhiare rauco del distributore 7-Eleven accanto a me. Il neon sfarfalla su sacchetti di patate viola fritte, piatti imbustati di riso al pollo, barrette di cioccolato, stick di surimi e dim sum cinesi sottovuoto. Prendo dei cracker taro e formaggio e il mio sgranocchiare si aggiunge al silenzio qui intorno. A una decina di metri da me, assonnata e intrappolata nel suo gabbiotto, la guardia notturna dell’ospedale si sta lentamente sciogliendo su una sediaccia di plastica bianca.
Sbadiglia.
Il processo di liquefazione sembra arrivato a uno stadio ormai irreversibile quando, all’improvviso, assisto a ciò a cui assistette Pavlov.
Nell’istante preciso che un quasi impercettibile ruotare arrugginito, lento e ritmato, sminuzza la quiete del Phuket General Hospital, gli occhi della guardia si spalancano come quelli di Zalo qualche ora prima. Questa volta non c’è dolore però, l’opposto: il corpo riprende forma dalla pozza liquida che stava diventando, le spalle si alzano, spunta il sorriso su quel volto che era stanco, che non è più stanco. Secondi dopo la guardia non è più nel gabbiotto: si è lanciata nel buio, inghiottita dal rumore di quelle ruote. La sediaccia di plastica bianca è vuota.
Finisco i cracker al taro e strizzo gli occhi verso il punto dove è sparito il tipo. Nel buio del parcheggio semi vuoto mi sembra di vedere un alone di luce dietro un’auto: lo sferragliare intanto ha smesso, c’è altro ora, come uno sfrigolio.

Un furgoncino-miraggio e l'odore di pasticceria

Mi alzo. Più mi avvicino più sento odore di impasto caldo, uova, burro, ma c’è anche carne, cioccolata bruciata.
Come un’oasi o un miraggio, oltre un enorme suv nero, appare un piccolo furgoncino poco più grande di un’apecar: la portiera posteriore è sollevata a fare da tettoia per una piastra, due ciotole, una dozzina di vaschette piene di qualsiasi cosa. L’interno del Daihatsu, tutt’intorno alla griglia, è decorato da quadretti colorati con sopra disegni di cosa offre il menu: sembrano piccoli pancake croccanti arrotolati a cono, quasi cialde, tutte farcite a fantasia. Su ogni disegno c’è il prezzo del mini pancake e nessuno supera i 10 bath, in euro circa venticinque centesimi. Tra tutti i quadretti, uno mi ruba lo sguardo e mi fermo a contemplarlo rapito: c’è disegnato uno dei coni, in cima ha un ciuffo di surimi e insalata, mentre sullo sfondo troneggia un barattolone di Nutella.
La guardia, intanto, è accanto a me: sta indicando all’uomo sceso ora dal furgoncino questo quadretto o quello, mentre la donna dietro la griglia annuisce e sorride, inizia a versare impasto sulla piastra. L’uomo con lei le passa via via le farciture e io comincio a fare domande proprio da questo momento. Si presentano ridendo: sono Ho e suo marito Long.

La nascita del rito dello street food a Bangkok

Passano a lavorare qui davanti l’ospedale solo tre notti a settimana e io sono stato fortunato. Zalo meno. Quando Bangkok era appena nata, battezzata e cresciuta sulle sponde del Chao Phraya, il mondo aveva da fare: Watt aveva appena finito di perfezionare la macchina a vapore e i fratelli Montgolfier erano già tra le nuvole. C’era terreno da recuperare, c’erano operai, marinai e mercanti a mangiare e dormire per strada, c’era bisogno di cibo caldo e calore umano. Nacquero i carretti dello street food, si diffusero in tutta la Thailandia, divennero bancarelle e poi food truck: ma significano altro. Fermarsi a un banchetto a prendere un moo ping, non è solo pagare questo stecco di carne di maiale marinata e passeggiare via: è fermarsi a salutare il venditore, farsi offrire un tè di gombo dai vicini di casa, incontrare un amico che passava di lì. È il nostro rito del caffè, è il momento della fika in Svezia, è l'afternoon tea inglese.
Ho mi racconta degli ingredienti che usa: un impasto di farina di riso e di fagioli, uova, zucchero, succo di limone, sale e ci sono altre polveri, altri segreti ma il suo inglese e il mio thailandese non si aiutano. I piccoli pancake, che a volte acconcia come coni e a volte come taco, si chiamano khanom buang: stende orbite di pastella con movimenti circolari, componendo dischi di impasto che orna con tre archi più piccoli alla sommità. Quando il khanom buang è quasi pronto alza gli occhi a cercare il marito e comincia il lavoro di Long: l’uomo prende nota degli ordini di ogni cliente - la guardia notturna e me - e quando una cialda è pronta la guarnisce con la farcitura richiesta. Chiedo un khanom buang con maiale marinato, un uovo più piccolo di quello quaglia, salsa piccante.

Khanom buang, ametà tra piccole crepe e pancake: possono essere dolci e salati. Nella foto sopra, piccoli spiedini di carne per guarnire i pancake

Cibo di strada, food design e l'economia che gira

Il Dipartimento per lo Sviluppo Economico thailandese considera i food truck un dono della provvidenza: fanno girare l’economia, attirano turisti e tour guidati, il covid o qualsiasi altra cosa possa succedere li rallenta ma non li ferma. Uniscono prodotto e delivery, geniale. Per il mondo dei prestiti e delle banche, stessa gioia: il rischio di impresa è basso e proprio come per Ho e Long il furgone stesso dell’attività può essere usato come garanzia per il prestito. I due cercano di spiegarmelo mentre Ho stende l’impasto, Long versa la carne e rompe l’uovo, Ho alza una sac a poche e annaffia il khanom buang con una spirale di salsa piccante che straborda sulla griglia bruciando immediatamente in un alone secco e rosso come la lingua del diavolo.
In mano ora ho questo cono di impasto avvolto intorno alla carne calda, in cima un minuscolo uovo all’occhio di bue. Lo mordo: il tuorlo rosso mi esplode in bocca avvolgendomi il palato in una crema piccante e agrodolce, dove lo zucchero e la carne sfilacciata fondono, si mescolano, montano. È un istante, un morso. Il fumo della piastra quasi copre il volto della guardia accanto a me, già al quarto bis.
C’è una parola thai, “nam jai,” letteralmente è “acqua dal cuore”. È un concetto che ne racchiude cento: comprende ospitalità, sensibilità, comprensione per il prossimo, curiosità per le prospettive altrui. Ho e Long scherzano sulla mia espressione, mi raccontano di quando hanno pensato di venire in vacanza a Roma, che l’Italia è bella. Mi dicono che sono felici che mi piacciano i loro khanom buang e di prenderne un altro per il mio amico. Lo prendo, ringrazio e torno verso l’ospedale: la guardia è di nuovo sulla sua sedia e mi fa un cenno mentre le porte scorrevoli mi riaccolgono. Salgo le scale del reparto di chirurgia generale fino al terzo piano, alla stanza di Zalo: lo trovo che dorme. Mi ci siedo accanto e rimango per un po’ al buio con il piccolo pancake che mi si raffredda tra le mani.

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