La grande distribuzione impone prezzi troppo bassi agli agricoltori? Un altro modello di supermercati è possibile. A Bologna l'emporio di comunità Camilla ha compiuto cinque anni, a riprova del fatto che si può istaurare un altro rapporto tra produttori e consumatori, basato sulla fiducia e sulla sostenibilità, ambientale, sociale ed economica.
Supermercati cooperativi
Si chiamano food coop, supermercati cooperativi o, come coniato dal primo esempio italiano Camilla a Bologna, empori di comunità. «Abbiamo voluto eliminare la parola “supermercato” proprio per differenziarci dalla grande distribuzione, per dare un'idea diversa», spiega Giovanni Notarangelo, uno dei fondatori e vice presidente di Camilla, primo esperimento italiano di food coop, sul modello di un movimento nato a New York già negli anni Settanta, e solo negli ultimi anni replicato in Europa, a partire da Parigi e Bruxelles, e da qualche tempo in Spagna e in Italia con alcuni esempi virtuosi, da OltreFood Coop di Parma a Stadera di Ravenna, da Mesa Noa di Cagliari al neonato Edera di Trento, o ancora Le Vie dell'Orto a Grossetto, l'Alveare a Conegliano Veneto e uno in arrivo a Milano, Eufemia.
Come funzionano gli empori di comunità
In pratica è un’esperienza di consumo differente, più partecipata e consapevole, che si concretizza in quello che possiamo definire un supermercato autogestito da chi lo frequenta. Certo, ci si può fare la spesa solo se si è soci, ma diventare soci è possibile per tutti. «Emporio sta per luogo dove si possono acquistare prodotti e comunità per un insieme di persone che decidono di associarsi mettendo una piccola quota iniziale e il loro tempo. Camilla oggi può contare su circa 700 soci, molti dei quali, non tutti (stabilmente tra il 50 e 60%), vi ci lavorano circa tre ore al mese affinché tutto funzioni. Questo fa sì che i prodotti distribuiti siano a disposizione dei soci al prezzo più basso possibile, perché parte della forza lavoro – tolte due dipendenti - è garantita dai soci e perché non dobbiamo fare profitti». Con il ricavato devono pagare solamente due stipendi, l'affitto del locale, i costi di gestione e le bollette.
Cosa vende un emporio di comunità
È l'evoluzione dei GAS, i gruppi di acquisto solidale, con una fruibilità superiore. «Prima eravamo un gruppo di acquisto, ma inaugurando un punto vendita aperto dal lunedì al sabato abbiamo consentito l'accesso alla nostra comunità a più persone. La cosa più sorprendente di questi primi cinque anni è il coinvolgimento dei soci». Soci coinvolti anche nella scelta dei prodotti da distribuire, non solo frutta e verdura freschi, anche formaggi, prodotti per l'igiene intima e della casa, con grande spazio dato agli sfusi: «Pasta, cereali, riso, frutta secca, legumi, biscotti, zucchero... la gamma dei prodotti sfusi si va via via sempre più ampliando. In generale i prodotti che vendiamo, scelti dagli stessi soci, devono rispettare dei criteri ben precisi: essere perlopiù locali, meglio se sostengono progetti sociali, devono essere biologici o, anche se non hanno la certificazione, devono seguire pratiche di agricoltura sostenibile. In questo la nostra esperienza pluriennale da gruppo di acquisto solidale è stata utile, ad ogni modo i nostri referenti sono piccole e medie aziende».
Il giusto prezzo
Altro criterio fondamentale è la giusta remunerazione dei produttori. E di conseguenza la giusta remunerazione di chi lavora per quei produttori. «Monitoriamo anche l'aspetto etico e sociale delle aziende dalle quali ci riforniamo». Ma chi decide il giusto prezzo per consentire la giusta remunerazione e la sostenibilità economica dell'emporio? «Date le premesse di prima, affinché la cooperativa stia in piedi non c'è bisogno di un grande ricarico, dunque demandiamo al singolo produttore la scelta del giusto prezzo. È questione di fiducia, di rapporto leale tra noi e il produttore, che sa bene quanto il nostro emporio non farà mai campagne di sconti e di conseguenza non gli chiederà mai di vendere i propri prodotti a un prezzo inferiore».
Un'altra distribuzione per un'altra agricoltura
Rapporto di fiducia, autogestione, partecipazione: tutto questo funziona. «Nell'ultimo anno, con l'inflazione e la speculazione messa in atto dalla gdo, a parità di qualità, siamo competitivi, specie sui prodotti freschi e su quelli di prima necessità. È chiaro, poi, che applichiamo ricarichi superiori su altri tipi di prodotti». Insomma un'altra distribuzione è possibile, e questa può generare un circuito virtuoso verso un'altra agricoltura. Un'agricoltura non più schiava della grande distribuzione, capace di costruire un'alleanza con i consumatori, basata su prestazioni ecologiche, sulla tutela del territorio, sulla volontà di mantenere la fertilità dei suoli. Che faccia a meno dei pesticidi – secondo un rapporto del WWF del 2022 l’Italia è al sesto posto nella top ten mondiale dei paesi che utilizzano più pesticidi, con 114.000 tonnellate l’anno di circa 400 sostanze diverse – dei campi estensivi, delle monoculture. Un'agricoltura che non gareggi, anche lei come la grande distribuzione, al ribasso assumendo schiavi.
Il mercato è pronto
I dati dimostrano che i consumatori potrebbero giocare un ruolo fondamentale in questa sfida: secondo uno studio realizzato da Nomisma, nel 2023, in Italia le vendite di prodotti biologici sono cresciute del +9%. Un dato parziale, ok – basti pensare che iper e supermercati rimangono il canale che veicola la maggior parte delle vendite bio o che esistono sempre più realtà non certificate bio ma che comunque praticano un'agricoltura sostenibile – ma che delinea un consumatore attento e sensibile alla sostenibilità dei prodotti che acquista (sempre secondo Nomisma il 78% degli italiani ritiene che la situazione riguardante emergenza ambientale e cambiamenti climatici sia critica). Il mercato è pronto.