Integrale, gluten free, di legumi, di farro, di Senatore Cappelli o kamut, di varietà di grano riscoperte, come il khorasan, saragolla, turanicum, gli antichi frumenti siciliani… È l’altra pasta, sempre più presente sul mercato, sia di nicchia che in grande distribuzione. Una tendenza cui non sono ovviamente impermeabili chef e ristoratori. Abbiamo indagato il mondo della pasta, sentendo anche i pareri di agronomi, ricercatori, esperti di cerealicoltura e marketing, nutrizionisti e chef.
Tipi di pasta alternativa: integrale, gluten free, di farro, di kamut
Bruna o dal color della luna, la troviamo in bella mostra sia in boutique alimentari che sugli scaffali dei supermercati. È la pasta che fino a pochi anni fa era considerata sorella minore di quella convenzionale di grano duro. Pasta integrale e gluten free, di farro, di kamut, di legumi, di varietà di grano della memoria riscoperte negli ultimi 30 anni come il Senatore Cappelli, il khorasan (commercialmente kamut), il turanicum, la saragolla, gli antichi frumenti siciliani.
Mentre il consumo della pasta classica da qualche anno è in calo, il mercato di quella alternativa è in rapida crescita. Una tendenza che ci viene confermata dalle statistiche, oltre che dall'osservazione. “Tanto per fare un esempio, nell’ultimo anno la produzione di pasta di legumi è passata da 552 a quasi 775 tonnellate, per un valore che sfiora i 6 milioni e 500mila euro contro i neanche 5 milioni di euro del 2017 - spiegano dall’Unione Italiana Food, associazione nata a inizio 2019 dalla fusione di Aidepi e Aiipa - una piccolissima fetta della quota complessiva di pasta secca prodotta in Italia, neanche lo 0,03%, ma con una crescita del 31,4% in valore e del 40,3% in volume rispetto al 2017”.
Perché i consumatori scelgono la pasta alternativa
Le motivazioni per scegliere la pasta alternativa sono le più disparate. Prima di tutto salutistiche, con i medici che invitano a consumare cibi non raffinati e i costanti studi in materia, come quello sui rischi sulla dieta povera di alimenti integrali pubblicato sul numero di aprile scorso di Lancet, una delle più importanti riviste mediche. Ma questo è solo uno degli aspetti: ci sono anche ragioni etiche, culturali, di attenzione all’ambiente, di scelte orientate verso l’organic e l’eco-friendly (molti di questi prodotti sono biologici), di aumento – vero o presunto – di allergie e intolleranze alimentari, di cambiamento dei gusti.
La pasta gluten free oggi è buona
Se il mercato premia questo trend si deve poi sicuramente anche alla maggiore appetibilità della pasta alternativa rispetto a quella della prima ora: non più legnosa, punitiva e debole al morso, ma ricca di gusto e di soddisfacente tenuta alla cottura. Il discorso è ancora più vero per la pasta gluten free (a base di riso, mais, grano saraceno, quinoa, amaranto), fino all’altro ieri roba da parafarmacia: era una via di mezzo tra la colla e la segatura pressata, che quando andava bene richiamava polenta e pop-corn.
L’evoluzione tecnologica e qualitativa sforna oggi prodotti incredibilmente migliorati dal punto di vista organolettico e strutturale, e si fa a meno degli emulsionanti per compattarla, come lecitina di girasole o mono e digliceridi degli acidi grassi (E471). Con le migliori interpretazioni che non fanno rimpiangere il maccherone classico, che siano quelle realizzate da industrie (Garofalo o Rummo che nel 2010 ha rilevato un ex pastificio nel Novarese per produrre vicino alle risaie l’intera linea Gluten free), sia da artigiani della trafila, come la Fabbrica della Pasta di Gragnano, che la essicca a bassa temperatura. Un bel regalo per celiaci, per coloro che soffrono di gluten sensitivity.
La storia dell’altra pasta
La lunga marcia dell’altra pasta comincia circa 40 anni fa, in concomitanza con la nascita delle prime aziende agricole biologiche, una su tutti quella di Gino Girolomoni, dal 1971 nelle alte Marche. Ma la svolta che ha fatto entrare il prodotto nella sfera del gourmet e nel mercato internazionale risale all’inizio degli anni ‘90.
Tra i protagonisti di questo cambiamento epocale i coniugi Latini, pionieri nella divulgazione del metodo di pastificazione artigianale, che fin dall’inizio hanno scommesso sulle vecchie cultivar di grano duro e sulla pasta monovarietale, prima fra tutti di Senatore Cappelli. “Volevamo dimostrare che, come per il vino, l’olio e altri prodotti agroalimentari, anche la pasta si ottiene dalla terra”, racconta Carla Latini. Se il mercato italiano all’epoca era tiepido, quello estero ha dato ragione ai pastai di Osimo. “Nel 1992 il nostro spaghetto di Cappelli, fresco di trafila, entra da Fauchon a Parigi, poi da Dean&DeLuca a New York. E solo dopo in Italia: tra i primi a darci fiducia l’enoteca Solci di Milano, gli chef Aimo Moroni e Antonello Colonna”. Un modello che ha contribuito a sdoganare i pastifici.
Nell’arco di un quarto di secolo sono sbocciate linee di pasta di grani duri vintage lavorati in purezza: da Felicetti, che nel 2004 ha lanciato la Selezione Monograno, a tante aziende artigianali. Storici piccoli pastifici sono passati dai grani di importazione a quelli coltivati in Italia dalla Toscana in giù, usando sia i “miscugli” che le singole cultivar. Più recentemente, anche in seguito alle polemiche sui residui di glifosato riscontrati nella pasta di alcuni brand, alcune industrie hanno lanciato linee di prodotto realizzate con solo frumento nazionale. Le filiere tendono ad accorciarsi sempre di più, con reti di contadini, mulino e pastificio uniti da un unico progetto all’interno di territori circoscritti.
Tipi di pasta alternativa: industrie, artigiani e mugnai
Una tendenza che coinvolge trasversalmente tutte le fasce di produzione: dai piccoli pastifici artigiani, come Fabbri, Gentile, Verrigni, Pastificio dei Campi, Cavalieri, Marella, Rustichella d’Abruzzo, tanto per citare i più famosi, alle industrie (l’esempio più tangibile De Matteis con Grano Armando), fino ai mugnai: uno su tutti Filippo Drago di Molini del Ponte, il più conosciuto ambasciatore delle antiche varietà di grani siciliani, con mulino a pietra naturale accanto a strumenti all’avanguardia.
Fino ai tanti agricoltori che stanchi di regalare il loro grano lo fanno trasformare in penne e spaghetti da pastifici locali. Con risvolti positivi a livello di ottimizzazione logistica, risparmio energetico e sostenibilità ambientale, di legame con il territorio e di valori etici e sociali.
La verticalizzazione della filiera
Ci riferiamo alla pasta delle Cooperative Libera Terra ottenuta dal grano proveniente dai terreni strappati alle mafie e alla nuova linea lavorata nel piccolo pastificio all’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo coinvolgendo i detenuti. Si sta assistendo a una verticalizzazione della filiera, dal campo al pacco: tutto viene lavorato nello stesso sistema produttivo, garantendo il controllo di ogni passaggio, la sicurezza alimentare e la tracciabilità.
Uno dei primi esempi di azienda a ciclo chiuso è quella di Massimo Mancini, agronomo e produttore di frumento sulle colline fermane nell’azienda agricola di famiglia, creata dal nonno negli anni ’40: nel 2002 i primi pacchi di spaghetti fatti in collaborazione con un piccolo artigiano, nel 2010 nascono il pastificio accanto ai campi di grano e la sua prima “pasta agricola”, dopo qualche anno la linea dei grani turanici (provenienti dall'attuale Turkmenistan): “È figlia del progetto di filiera nato in collaborazione con Oriana Porfiri, agronomo con campo sperimentale di cereali sulle colline maceratesi, e Massimo Fiorani dell’azienda Prometeo di Urbino, che coltiva in bio il turanicum e lo macina a pietra”, spiega Mancini.
Ma se il pastifico agricolo di Monte San Pietrangeli è uno degli esempi più noti e presenti nel segmento gourmet, non è l’unico in Italia. Queste filiere chiuse, piccole e piccolissime, bisogna sì andarsele a cercare ma ci sono: Feudo Mondello di Monreale, la Cooperativa Gino Girolomoni (ex Alce Nero, ex Montebello), Caccese in Irpinia (Pasta del Camporeale), D'Amicis nel Gargano...
Chiudono le industrie aprono artigiani e agricoltori
Nonostante fosse famosa nel passato per i suoi grani, l’Italia è costretta a importare grano duro dall’estero per far fronte al fabbisogno: più di un terzo, secondo i dati Ac Nielsen e Istat. In Sicilia, però, succede il contrario: la metà dell'ottimo grano coltivato sull'isola viene venduto ai pastifici del resto del Paese. E se in Sicilia hanno chiuso grandi pastifici – “in 40 anni, di 45 industrie ne sono rimaste 5” spiega Giuseppe Russo, biologo che conosce il panorama agroalimentare siciliano come le proprie tasche – dall’altra hanno aperto, e stanno ancora aprendo, piccole realtà eroiche di filiera corta. Segno che, nonostante il prezzo del grano in picchiata e la scarsa remunerazione, per chi fa qualità c'è spazio. Quando se ne accorgeranno convintamente anche i nostri amministratori, forse per il grano italiano potrà esserci un futuro migliore...
a cura di Mara Nocilla
foto di Lido Vannucchi
Articolo uscito nel numero di agosto 2019 del Gambero Rosso. Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store
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