Nel numero di settembre del Gambero Rosso abbiamo fatto un viaggio a Singapore, la città-stato sempre più forte nel campo del gusto e delle tendenze enogastronomiche, dove il cibo batte ritmi frenetici e la concorrenza è a tratti spietata. In bilico tra Asia e occidente.
Singapore
Welcome to Singapore. La città-stato calda fuori e fredda dentro (portatevi un golfino per entrare in qualsiasi edificio: l’aria condizionata sembra essere l’unica aria che Singapore riesca a respirare), di un verde lussureggiante, che per percorrerla da est a ovest (il lato più lungo) ci vuole poco meno di un'ora. Un'isola che ha uno dei porti più importanti dell'Asia, è il quarto principale centro finanziario del mondo, ma ha solamente 200 anni: la data della fondazione è stata arbitrariamente fatta coincidere con l'arrivo di Thomas Stamford Raffles nell'isola, ovvero il 28 gennaio del 1819.
Qui si parla il singlish - un inglese tutto loro, comprensibile solo a loro – si guida a sinistra, anche se le automobili sono un lusso di pochi (ma i mezzi pubblici funzionano benissimo), e il simbolo per eccellenza è il Merlion, una statua con il corpo di pesce e la testa di leone, nonostante sull'isola i leoni, probabilmente, non siano mai vissuti. Al netto di tutto questo, per comprenderla anche solo un pochino, Singapore la si deve studiare, a cominciare dalla storia.
Un po' di storia di Singapore
Da sempre crocevia di popoli e culture, per capirne (anche) la gastronomia è necessario rispolverare qualche tappa storica di quella che ufficialmente, oggi, è la Repubblica di Singapore. Le prime notizie scritte risalgono al III secolo – su dei libri contabili cinesi che la descrivono come Pu-Luo-Chung (isola alla fine) – ma poi bisognerà aspettare su per giù dieci secoli prima di imbattersi nelle testimonianze che ne parlano invece come un centro commerciale importante, grazie alla sua posizione strategica tra le differenti rotte marittime, all’estremità della penisola malesiana.
Ed è proprio tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo che Singapore conosce le prime ondate immigratorie provenienti da diversi paesi della regione, vedendo arrivare sulle sue coste cinesi, indiani, arabi, portoghesi. Poi però, il declino, fino a quando Raffles vi stabilì una base commerciale per conto della British East India Company, proclamandola subito porto franco. Questo segnò la sua fortuna economica ma anche quella culinaria.
“Arrivarono mercanti cinesi e malesi, altri dalla Malacca e da Manila mentre Calcutta, che amministrava la colonia, vi dislocò galeotti e soldati indiani. Cingalesi e arabi vennero poi a lavorare nelle miniere di stagno e nelle piantagioni di caucciù mentre aumentavano inglesi, europei e ebrei – ci spiega Rosario Scarpato, storico della gastronomia – Le cucine di questi gruppi prosperarono e presto si mischiarono. Singapore divenne capitale della fusion, due secoli prima che diventasse moda. E dal mix nacquero anche cucine “originali” come la Peranakan, un misto di cinese, malese e europeo, oggi quasi in estinzione. Continuarono a venire anche gli indonesiani di Sumatra e Giava con le loro spezie, come avevano fatto nei 500 anni precedenti. Singapore è stata sempre un grande centro di smistamento di spezie”.
Lo sviluppo economico registrato nella seconda metà del XIX secolo provoca una rapida crescita della popolazione, in particolare in seguito all’afflusso di immigrati dalla Cina. E ben presto diventa un prelibato bocconcino per la sua grande importanza commerciale e strategica, tanto da essere occupata, dal 1942 al 1945, dalle truppe giapponesi e, successivamente, riconquistata dagli inglesi. Senza entrare troppo nei dettagli storici (vedi timeline), la sua indipendenza è storia recente, arriva solo nel '65 con l'espulsione di Singapore dalla Malesia (sì, nel frattempo il Paese, in seguito a un referendum voluto dal Primo Ministro Lee Kuan Yew, ha fatto anche parte della Federazione della Malesia!).
E siamo arrivati così ai giorni nostri. L'excursus storico for dummies era doveroso: è stata la sua storia, soprattutto quella degli ultimi cento anni, a rendere Singapore il centro economico dell’area. Anni in cui Lee ha trasformato l’isola da malconcio residuato postcoloniale in sfavillante laboratorio per le più audaci sperimentazioni, trasformandola in una delle più floride economie del sud est asiatico. Ma tutto questo cosa ha comportato dal punto di vista gastronomico?
Singapore e la cucina peranakan
Essendo da sempre crocevia di popoli e culture, è difficilissimo individuare una cucina tradizionale. Basti pensare che la popolazione, di oltre 5 milioni di abitanti, è composta da cinesi, malesi, indiani e altre discendenze di asiatici ed europei. Ma come accennato da Scarpato ce n'è una che più di tutte si avvicina al concetto di “tradizionale”, ed è la cucina peranakan, fatta di sapori, ingredienti e tecniche cinesi e malesiane assieme, in un perfetto esempio di integrazione, concetto tanto difficile da comprendere, oggi, da questa parte del mondo.
Nel ristorante Candlenut (che ha confermato una stella per la Guida Michelin Singapore 2019), immerso nel verde lussureggiante di Dempsey Hills, lo chef Malcolm Lee propone la sua versione della peranakan. “Si riferisce alla cucina dei discendenti di immigrati cinesi stabilitisi nell'arcipelago malese tra il XV e il XVII secolo, che poi si sono sposati con i malesi locali creando una cucina unica che fonde cinese, malese e altre influenze”. Spiega il giovane chef, e il menu che propone è, fin dal nome, una dichiarazione d'intenti.
Il menu ah-ma-kase
“Richiama la parola giapponese omakase (un tipo di ristorazione giapponese dove gli ospiti si affidano totalmente alle mani dello chef, ndr), ma al tempo stesso “ahma” significa “nonna”, a ricordare lo spirito della sua cucina, e al tempo stesso il modo in cui vengono serviti i piatti, un po' in stile meze, con la possibilità di poter condividerli con i propri commensali.
“All'inizio lavoravo assieme a mia mamma e ogni volta che provavo a introdurre nuove idee, mi sentivo rispondere “non è così che si fa”. Non ci ho più provato! E mi sono attenuto alla tradizione concentrandomi piuttosto sulla qualità degli ingredienti e delle tecniche utilizzate. Un pasto tradizionale peranakan può richiedere anche una settimana per essere preparato”.
Il buah keluak che da crudo è mortale
Come per esempio il famoso buah keluak, che qui da Candlenut accompagna il riso o il maiale. Si tratta di una salsa fatta con una specie di noce nera tipica del Sudest asiatico, che se non viene trattata con la giusta tecnica è mortale: “Questo seme, crudo, contiene cianuro ed è mortale. Ecco perché prima di servirlo lo lasciamo fermentare e lo bolliamo ripetutamente”, spiega Lee.
Tra i cavalli di battaglia dello chef ci sono anche il dentice rosso con sambal di mango verde e farina di zenzero e dei tipici gamberoni con sambal ed erba cipollina carbonizzata. “Compro il pesce al Tekka Center, ho ormai i miei venditori di fiducia, ma per comprendere l'influenza della Malesia sui cibi nonya (altro nome dato alla peranakan) vi suggerisco di farvi un giro al mercato di Geylang Serai, dove ancora servono i miei piatti dell'infanzia, dall'Asam pedas stingray (spezzatino acido e speziato) alla carne brasata cotta nel latte di cocco e spezie, al goreng pisang (frittelle di banana)”.
I fine dining di Singapore
Tolta la parentesi del “tradizionale” la maggior parte dei ristoranti fine dining degni di nota sono all'insegna dell'occidentalizzazione spinta. Singapore, infatti, pur rimanendo una città asiatica (nei mercati questa caratteristica si respira eccome), è anche occidentale. Questo suo carattere di occidentalità è puro, svincolato dalle sue stesse radici culturali e politiche, ecco perché l’isola intera è diventata terreno fertile per uno sviluppo caoticamente perseguito, configurandola, forse, come il più vivace laboratorio di sperimentazioni gastronomiche del globo.
C'è il ristorante australiano con barbecue nel cuore di Chinatown, Burnt Ends, il cantonese Summer Pavilion, il francese Odette, il giapponese Waku Ghin di Tetsuya Wakuda al Marina Bay Sands o l'esponente della cucina nordica Bjorn Frantzen con il suo ristorante Zén. E in un contesto così cosmopolita non poteva mancare – sempre per via della storia di Singapore - la cucina britannica del Jaan.
La lista e l'approfondimento continuano nel numero di settembre del Gambero Rosso.
a cura di Annalisa Zordan
QUESTO È NULLA...
Nel numero di settembre del Gambero Rosso trovate il racconto completo con un focus sullo street food e i mercati a Singapore. Uno speciale di 11 pagine che include anche i contributi di tre giornalisti gastronomici – Lorenza Fumelli, Federico De Cesare Viola e Paolo Vizzari – un estratto di un racconto di Tiziano Terzani, le 9 specialità da non perdere, le tavole italiane a Singapore (molti ragazzi italiani, infatti, vanno a Singapore per far carriera), le tendenze e i lati oscuri del sistema tirati in ballo dalla giornalista di SingaPoured Jessica Tan. In più una mappa dettagliata con tutti gli indirizzi utili con cosa vedere, dove mangiare e dove bere in città.