Sanguinaccio napoletano, non solo a Carnevale
È associato al Carnevale, periodo in cui viene gustato con le chiacchiere, ma il sanguinaccio napoletano veniva tradizionalmente preparato con il sangue del maiale a gennaio, il 17 per la precisione, giorno in cui si celebra Sant’Antonio Abate. E il motivo è presto detto: padre del monachesimo, protettore degli animali, delle campagne, delle fattorie e dei contadini, nell’iconografia classica il santo è raffigurato sempre in compagnia di un maiale. Furono infatti proprio i monaci antoniani i primi a ripristinarne l’allevamento, in barba al tabù che voleva l’animale simbolo del demonio, e a impiegarlo ricavandone diversi prodotti utili per l’uomo, come le creme emollienti per curare i malati o il grasso usato per lenire l’herpes zoster, più noto come fuoco di Sant’Antonio.
Il sanguinaccio originale con il sangue di maiale
Il rituale della macellazione terminava proprio il 17 gennaio, e a Napoli si usava raccogliere il sangue per preparare una crema con cacao, zucchero, farina, vino cotto, cioccolato fondente, grasso di maiale, cedro candito, cannella, chiodi di garofano, uvetta e noci. Doveva essere mescolato continuamente per evitarne la coagulazione, e veniva poi filtrato, prima di essere unito alla crema di cacao cotta in pentoloni di rame. Sant’Antonio, però, c’entra ben poco con l’origine di questo prodotto: si tratta di una ricetta di recupero, un modo ingegnoso per sfruttare tutti i prodotti derivati dall’animale, messo a punto da chi viveva nelle campagne (dove si sa, del maiale non si butta via niente). Inizialmente il sangue veniva usato a scopi terapeutici, come in caso di carenza di ferro, ma i napoletani hanno saputo trarne un liquido denso e una specialità gastronomica.
In origine, il dolce doveva essere piuttosto cremoso e dal gusto pungente, fatto con poche spezie e aromi, mentre a partire dall’Ottocento, come spiega Ippolito Cavalcanti nel suo “Cucina teorico-pratica”, si aggiungono anche “no grano de carofano fino” e “mezza libbra de mustacciuolo pesato”, per conferire più dolcezza alla ricetta. Altre testimonianze storiche sono quelle di Vincenzo Corrado, cuoco e letterato napoletano che nel Settecento invece ne propone una versione con la “panna di latte”, oltre che con gli “aranci canditi triti”. È ancora Cavalcanti, però, a raccontare il metodo di conservazione del sanguinaccio nell’Ottocento, quando si usava tenerlo “dinto a lle stentina de puorco”, ovvero nelle budella del maiale: una sorta di insaccato dolce che veniva poi messo a bollire in acqua calda. Oggi il sanguinaccio non viene più preparato così, anche perché dal 1992 è stata vietata la vendita del sangue di maiale in tutta Italia, per scongiurare il rischio infezione (il sangue, del resto, è veicolo di malattie trasmissibili).
La ricetta del sanguinaccio dolce (senza sangue)
Come sempre sono tante le variazioni della ricetta, che oggi ricorda quella originale solo nel colore marrone scuro e nella consistenza densa. Caratteristica principale è l’aromaticità: non può infatti mancare un po’ di cannella, ma c’è anche chi aggiunge la vaniglia o altre spezie. Per prepararlo, di solito si usano poi latte intero, zucchero, cacao amaro, cioccolato fondente, amido di mais e burro, che vengono uniti insieme fino a creare una crema liscia e setosa, in cui intingere le chiacchiere di Carnevale. Anche se per i napoletani doc niente è paragonabile al vero sanguinaccio fatto nella maniera tradizionale, oggi vi lasciamo una ricetta per prepararlo senza correre rischi.
La ricetta del sanguinaccio
2 cucchiai di fecola
500 ml. di latte
400 g. di zucchero
150 g. di cioccolato fondente
70 g. di canditi (cedro o arancia)
Cannella e altre spezie a piacere q.b.
Unire a poco a poco la fecola setacciata al latte, lavorando attentamente in modo da non formare grumi. Mettere tutto in una pentola a fuoco basso, aggiungere lo zucchero, gli aromi e il cioccolato fondente tagliato a pezzetti. Far cuocere fino a quando la crema non raggiunge una consistenza piuttosto densa. Aggiungere i canditi e servire in coppette accompagnate dalle chiacchiere.
a cura di Michela Becchi