La pizza alla napoletana è il simbolo per eccellenza della nostra gastronomia all’estero, ma quella che conosciamo oggi è solo l’ultimo esito dell’evoluzione di questo alimento che può vantare almeno mezzo millennio di storia alle spalle.
Pizza. Un’etimologia antica e diffusa
Le prime testimonianze del vocabolo sono di poco precedenti all’anno mille e l’area di distribuzione include tutta l’Italia centro-meridionale. L’etimologia della parola è però molto più antica e sembra sia comune alla “pita”, il tipico pane schiacciato diffuso tra grecia e medioriente, alla piadina romagnola (in dialetto “pida”) e alla “pinza”, un dolce diffuso tra Emilia, Veneto e Trentino.
Tutte queste forme di pizza si sono evolute e ibridate nel corso dei secoli, convivendo nella gastronomia italiana accomunate dalla stessa definizione che indicava genericamente una semplice focaccia schiacciata, oppure una torta con un condimento – dolce o salato - distribuito sulla superficie o racchiuso tra due strati di pasta.
La pizza alla napoletana
Grazie all’intraprendenza dei napoletani, a partire dai primi del Novecento la pizza si è diffusa in tutto il globo ed è diventata una bandiera italiana, a volte più conosciuta del tricolore. Ad oggi il vocabolo “pizza” è una delle parole italiane più note al mondo, tanto da essere adottata in almeno 60 lingue. E se si tralasciano piccole differenze e la diatriba sui condimenti - come quella recente della pizza con l’ananas (proposta, in maniera provocatoria, anche dal grande Franco Pepe) - tutti saprebbero riconoscere a colpo d’occhio una pizza alla napoletana.
La prima pizza è rinascimentale...
Se oggi la forma e l’aspetto di questo alimento sono standardizzati, non si può dire lo stesso per i suoi antenati, anche piuttosto recenti. Il primo autore che descrive le ricette della pizza “napoletana” è Bartolomeo Scappi che si può considerare il Michelangelo della gastronomia italiana.
Nel suo celebre trattato include due ricette che fanno riferimento alla città partenopea: la “Torta reale di polpa di piccioni, da Napoletani detta pizza di bocca di dama” e la “Torta con diverse materie, da Napoletani detta pizza”. Le due composizioni hanno entrambe un condimento molto ricco - composto da frutta secca, uova, zucchero, spezie e altri ingredienti tritati e amalgamati - steso su una base di pasta frolla nel primo caso e pasta sfoglia dolce nel secondo.
Ma non c'entra nulla con l'attuale pizza
Come si può intuire, l’unica cosa che può ricordare l’odierna pizza napoletana è forse la forma e lo spessore “che non sia più alta d’un dito”, come avverte l’autore.
Questa versione particolarmente elaborata era probabilmente l’equivalente “nobilitato” della pizza alla napoletana che, al contrario, doveva essere un alimento estremamente semplice e quotidiano. Con tutta probabilità le diverse tipologie di pizza dovevano convivere, come dimostrano anche gli autori dei ricettari che continueranno a chiamare genericamente “pizza” una serie di torte e schiacciate, sia dolci che salate, senza grandi distinzioni.
La pizza nei ricettari napoletani
Conferma questa tesi anche Vincenzo Corrado, il primo esponente della cucina partenopea moderna, con il suo “Il Cuoco Galante” del 1773. Nel capitolo dedicato alle torte, tra le quaranta diverse ricette, si trova anche quella “alla napoletana”: racchiusa tra due strati di pasta sfoglia troviamo una farcitura ricca e saporita composta da mozzarella, ricotta, provola, prosciutto, salsiccia, pancetta, uova, pepe e cannella. La stessa preparazione, con minime varianti, verrà ripresa anche da autori successivi ed è ancora oggi conosciuta con il nome di “pizza rustica”.
Rimanendo nell’ambito dei ricettari partenopei, nel 1828 viene pubblicato a Napoli “La Cucina Casareccia”, di autore anonimo di cui si conoscono solo le iniziali M. F. Anche in questo caso, della pizza alla napoletana come viene intesa oggi non c’è traccia, anzi, tutte le ricette di pizza sono dolci di pastafrolla con diversi ripieni, dalla ricotta alle amarene, dalle fragole alla cioccolata.
Fino a fine '800 la pizza non era come la intendiamo oggi
Nel 1837 appare il ricettario di Ippolito Cavalcanti, forse il più celebre e moderno dei cuochi storici napoletani, che riporta un’appendice della “Cucina casereccia” in dialetto. Questa sezione comprende unicamente la “Pizza rusteca” (di cui diamo la ricetta di seguito) e la “Pizza doce” (dolce) nelle varianti alle amarene, al bianco mangiare e alla ricotta.
Anche gli autori successivi (come Francesco Palma nel 1881) ricalcano questa impostazione. Altri si limitano a citare la pizza napoletana come una semplice schiacciata di pasta di pane con olio (Il Cuoco Sapiente del 1871 e Belloni nel 1890) mentre Pellegrino Artusi nel 1891 sotto tale nome propone unicamente la versione dolce a base di ricotta.
La pizza come la intendiamo oggi compare nello street food di Napoli
Nel frattempo la pizza alla napoletana, quella che conosciamo oggi, aveva preso forma e si era sviluppata con grande successo come cibo da strada estremamente popolare, ma relegato unicamente all’interno delle mura partenopee. Sebbene venga totalmente ignorata dai ricettari, la sua presenza è riportata in numerose cronache a partire almeno dalla prima metà dell’Ottocento.
Una delle più famose è quella di Alexander Dumas che, reduce da un viaggio a Napoli nel 1835, ne dà questa descrizione: “La pizza è una specie di schiacciata come se ne fanno a Saint Denise: è di forma rotonda e si lavora come la pasta del pane. Varia nel diametro secondo il prezzo [...] La pizza è: all’olio, la pizza è al lardo, la pizza è allo strutto, la pizza è al formaggio, la pizza è al pomodoro, la pizza è ai pesciolini”.
Questo tipo di pizza da strada, l’unica destinata a conoscere un enorme successo nel secolo successivo, doveva convivere con le varianti descritte nei ricettari. Tra gli altri, lo testimonia una “Smorfia” napoletana del 1866 che, nell’elenco delle pizze - alle vongole, alle alici, con mozzarelle, con formaggio e sugna - inserisce anche la pizza rustica, quella imbottita e la dolce. Evidentemente i sogni dei napoletani dell’epoca non facevano differenze.
Il successo mondiale della pizza napoletana
Evitiamo di riportare tutte le citazioni letterarie successive per ricordare solo Matilde Serao nel suo “Ventre di Napoli” del 1884 in cui racconta di un intraprendente pizzaiolo napoletano che volle tentare di esportare le sue specialità a Roma, ma “La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana”.
Come sappiamo oggi, le cose andarono diversamente e la pizza uscì ben presto dai confini campani già nei primi del Novecento – la prima pizzeria newyorkese apre nel 1905 – anche se il vero picco si ebbe nel secondo dopoguerra. La pizza alla napoletana nella versione da street food soppiantò completamente le altre varianti che rimasero schiacciate dal suo enorme successo, nonché orfane del nome, tanto che oggi sarebbe quasi impossibile chiamare piatti così diversi “pizza napoletana”.
La ricetta della “pizza rusteca” di Ippolito Cavalcanti datata 1837
Questa versione, tutta napoletana, ha rubato per ben più di un secolo la scena alla pizza più conosciuta. Anche se non è affatto scomparsa nella cucina partenopea, non gode della fama della sorella più famosa. La riproponiamo qui nella ricetta inserita da Ippolito Cavalcanti nell’edizione della “Cucina teorica-pratica […] con in fine una cucina casereccia in dialetto napoletano” del 1837.
“Piggliarraje no ruotolo (891 gr) de sciore (fiore di farina), e dinto ‘nce miette no quarto (quarto di libbra = 80 gr) de nzogna (strutto), sei ova co tutto lo ghianco, e no quarto de zuccaro, che scamazzarraje (schiaccerai ) fino fino co lo laniaturo (matterello): lo mpastarraje buono, e si te pare ca la pasta è tosta, ‘nce metterraje no poco poco d’acqua fresca: po farraje na pettolla (sfoglia) purzì co lo laniaturo, sodognariaje (ungerai) de nzogna no ruoto (teglia rotonda) e nce la miette dinto; po sbattaraje l’ova con lo ccaso, fellarraje (affetterai) provola, mozzarelle e saciccio, e nce lo mmischi, co no poco de pepe sovierchio: doppo faje n’auta petola, e la commuoglie (incoperchi); nce miette la nzogna pure ncoppa, e la farraje cocere dint’ a lo furno, o co lo tiesto”.
Ingredienti per la pasta (Quantità per una tortiera tonda di diametro 25 cm, pari a un terzo delle dosi indicate nella ricetta originale)
- 300 g di farina
- 2 uova
- 6 cucchiai di acqua
- 25 g di strutto (più lo strutto per ungere lo stampo e la sommità della torta)
- 25 g di zucchero
- Sale
Per il ripieno
- 2 uova
- 600 g di primo sale (oppure un formaggio fresco tipo juncata, quartirolo, raviggiolo o robiola)
- 100 g di provola
- 100 g di mozzarella
- 150 g di salsiccia passita o salame
- Una macinata abbondante di pepe
Iniziate preparando la pasta della pizza unendo farina, zucchero e sale. Con questi ingredienti fate una fontana sulla spianatoia e aggiungete le uova e l’acqua al centro.
Mescolate tutto con la forchetta fino a che il composto non è abbastanza solido, unite lo strutto e proseguite a impastare a mano per circa 15 minuti per ottenere una pasta perfettamente liscia. Avvolgetela nella pellicola e lasciatela riposare a temperatura ambiente almeno mezz’ora.
Nel frattempo sminuzzate a mano o con l’aiuto di un coltello il formaggio primo sale, ponetelo in una ciotola e aggiungete le uova. A parte tagliate a cubetti la salsiccia passita e a fette la provola e la mozzarella. Unite tutto mescolando accuratamente gli ingredienti.
Dividete la pasta in due porzioni e con la prima tirate a matterello una sfoglia tonda di circa 40 cm di diametro che userete per foderate l’interno della tortiera già generosamente spalmato di strutto.
Farcite con il ripieno e un’abbondante macinata di pepe nero alla sommità, infine coprite con il secondo foglio di pasta.
Chiudete accuratamente i bordi e ungete la sommità della pizza con altro strutto. Infornate a 170 gradi per circa 45 minuti. Per non accumulare troppa umidità all’interno della pizza potete creare un foro di circa 1 cm di diametro al centro della torta.
Gustatela ancora calda appena sfornata, oppure il giorno dopo fredda (consigliatissima per i pic-nic ottocenteschi).
Consiglio: la parte più impegnativa della pizza rustica è quella di realizzare e stendere la pasta, ma vi consigliamo comunque di non optare per un prodotto già pronto da banco frigo, ne andrebbe del profumo e della consistenza della pizza.
Scopri la storia e le origini di altri piatti!
a cura di Luca Cesari
foto della “pizza rusteca” di Luca Cesari