Non mi piace. Se non fossi una persona «del settore» il pezzo potrebbe concludersi qui. Ma in questo mondo ci lavoro da anni e il fatto che non ami andare nei ristoranti fine dining (stellati, d’alta cucina, chiamateli come vi pare) risulta bizzarro. O almeno, così era fino a poco tempo fa: oggi molti colleghi iniziano a vacillare, soprattutto quelli che negli anni hanno collezionato cene su cene in posti pluripremiati, che hanno progettato itinerari di viaggio attorno ai ristoranti (una crisi strutturale del settore c'è ed è innegabile).
Lavoro al Gambero Rosso e non mi piace il fine dining
Il punto, però, è che io non mi sono stancata del fine dining: non l'ho mai amato. In principio mi sentivo fuori posto per questo, al punto che i primi tempi in redazione sono arrivata a mentire, fingendo di aver cenato in locali mai visti pur di non sentirmi tagliata fuori dalla conversazione (sospetto - e in alcuni casi lo so per certo - di non essere stata l’unica a farlo, e su questo occorre una riflessione collettiva). Oggi non mi sento più «sbagliata» e sono riuscita a evidenziare una serie di ragioni per cui questo tipo di ristorazione non fa per me: le sottoscrivo tutte ma la più importante, legittima e sacrosanta, è quella dell'ultimo punto.
Troppe portate mi annoiano
Reggo fino a sei, non di più. Sia fisicamente – amo mangiare, ma detesto abbuffarmi – che mentalmente: perdo la concentrazione e non sono in grado di seguire il ritmo di un menu degustazione. Nell'autunno 2022 ho fatto una cena da 14 portate, di cui però ricordo distintamente solo 4 piatti. Da metà percorso in poi, è prevalsa la fatica (complice anche il mio poco allenamento in questo senso). Il senso di colpa nel lasciare le portate a metà è immenso e mi tormenta ancora oggi.
Mangio «di pancia»
A che serve assaggiare tanti piatti? Ma è ovvio, a «capire fino in fondo la filosofia dello chef» come si sente sempre ripetere. Ecco, io non sono così concentrata quando mangio. Assaggio di «pancia», commento in maniera istintiva, non sono incuriosita dalla carriera o il pensiero dello chef (che, per inciso, non reputo un «artista», così come non credo che la cucina sia una forma d’arte. Artigianato, al massimo, ma questa è un’altra storia e credo di aver già attirato una serie sufficiente di commenti arrabbiati per oggi). In sostanza, quello che mi chiedo quando mangio è: Mi piace questo piatto? Me lo ricorderò? Sì, allora è buono. Per valutare un certo tipo di cucina serve però un’analisi più approfondita, per questo sostengo che non sia il mio mondo.
Ho un budget limitato (e mangiare fuori non è la mia priorità)
Ho un conto in banca simile, probabilmente, a quello di molte persone della mia età (i magici Millenials). Però in ristoranti posso spendere meno della maggior parte dei miei colleghi. Non parlo solo di stellati da 300 euro a testa, ma anche di menu dai 70 euro in su, che per me sono uno «sfizio» da concedersi di tanto in tanto. Questione di priorità, sento sempre ripetere, ma questo è vero solo in parte perché non tutti hanno la possibilità di scegliere e ci sono troppe variabili come spese mensili extra, che non sono affatto un'eccezione per una famiglia o ancor di più per un single.
Il punto, in questo caso, è la percezione della spesa: pur comprendendo il valore che c’è dietro quel lavoro, cento euro al ristorante per me sono tanti. Cento euro per il biglietto del concerto di Bruce Springsteen, invece, li considero un affare. Non esiste una spesa giusta e una sbagliata: ognuno fa i propri conti, va bene investire in capi d’abbigliamento così come in case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale… però il fattore economico incide eccome sulle scelta dei ristoranti, e con questo bisognerà sempre più farci i conti.
Una cosa non esclude l’altra, ma in qualche caso sì
Sia chiaro, si può amare l’amatriciana in trattoria così come il «Cocomero e Pomodoro» di Niko Romito. Una cosa non esclude l’altra, ma tutti abbiamo delle predisposizioni, delle atmosfere in cui preferiamo trovarci e dei sapori che stuzzicano la nostra mente. E il più delle volte chi ama molto il fine dining (i famosi «collezionatori» di cene) finisce per diventare meno incline a un tipo di cucina più semplice, che risulta quasi un’uscita «sprecata» (considerazione che ho sentito fare più volte). Per me l’unico spreco è quello di cibo e denaro: non esiste una cena fuori «superflua», non esistono le «calorie inutili»: a meno di non mangiare veramente male – e in quel caso si torna allo spreco di soldi di cui sopra – non credo mai di aver sciupato una serata. Tanto più se ero in buona compagnia.
Tutta colpa di una torta rustica
A questo mestiere ci sono arrivata perché mi piace cucinare, ancor prima che mangiare. Amo andare presto al mercato la mattina (con tanto di carrello della spesa), modificare ricette (semplici e amatoriali), invitare persone a cena (il piacere più grande). Cucino per gli altri, ma anche per me stessa, per volontà e non per dovere. Del cibo mi sono innamorata sporcandomi le mani di farina: provare oggi un (grande) piatto casalingo è ciò che mi riconnette a me stessa, a quella ragazza che per la prima volta è rimasta incantata da una pasta brisè.
È vero che una cosa non esclude l’altra, ma se faccio questo mestiere è grazie a una torta rustica con funghi e Cheddar, non perché sono stata folgorata da un grande ristorante. Ero una studentessa fuorisede, prima di entrare in redazione, di ristoranti non ne avevo provato nessuno ma sentivo che questo era il posto giusto per me (una consapevolezza persa in fretta e ritrovata solo dopo molto tempo, e con tanta fatica). Sarà allora sempre in un sugo ben fatto, in un piatto di gnocchi a regola d’arte che ritroverò quella scintilla.
Non sei tu, sono io (anzi, no)
Negli anni mi sono interrogata così tanto sulla questione da aver dimenticato il motivo principale: il gusto personale, dettato da un qualcosa di indefinito che forse non ha senso indagare. Chiedereste mai a qualcuno perché si è innamorato di una persona anziché di un'altra? Non mi piace il fine dining così come non mi piace l’estate: non è parte della mia natura, non sono «tipa da spiaggia» e nemmeno da stellato. Del cibo amo tutto, tranne la sua rappresentazione più patinata, ma questo non mi rende meno coinvolta o dedita. Pensereste mai che una giornalista di moda non sia appassionata solo perché preferisce le sneakers ai tacchi alti?
La verità è che sono una banale, noiosa monogama: amo la pasta fatta in casa, una fetta di pane e olio buono, le storie dei prodotti, dei baracchini in strada che regalano pit stop spettacolari, delle caffetterie che profumano di cannella... e non riesco ad amare contemporaneamente anche altro. Se questo sia un limite o un punto di forza non credo lo sapremo mai. Caro fine dining, potrei dirti che «non sei tu, sono io», ma di colpe non ne vedo, non più. Solo non ti amo, non ti ho mai amato. E non ti vedo nemmeno come un amico.